di Margaret Wilkerson Sexton
Fazi, ottobre 2019
Traduzione di Arianna Pelagalli
pp. 310
€ 17 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)
Fazi, ottobre 2019
Traduzione di Arianna Pelagalli
pp. 310
€ 17 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)
[…] ai bambini non servono dei genitori perfetti, gli servono dei genitori presenti (p. 287)Le storie, specie quelle di un certo tipo, per fortuna non hanno data di scadenza. Tralasciando il discorso sui classici, purtroppo siamo abituati a confrontarci con le nuove uscite editoriali come se si trattasse di collezioni moda, dobbiamo leggerli e parlarne in un certo momento altrimenti non ha più valore, importanza. Per alcuni di noi ovviamente non è così e possiamo benissimo riprendere oggi un romanzo uscito diversi mesi fa e ben accolto da critica e pubblico. Senza il rischio di essere anacronistici, forse solo un po’ meno sul pezzo, ma non è quello che ci importa, quello che conta. Anche perché la storia narrata da Margaret Wilkerson Sexton nel suo romanzo d’esordio, La libertà possibile, nel suo essere racconto generazionale dagli anni Quaranta del secolo scorso al 2010, la si può osservare dalla giusta distanza, anche temporale, e scoprire nuove chiavi di lettura. Sexton racconta tre generazioni di afroamericani – un dato su cui all’inizio del romanzo soprattutto si sofferma con una certa insistenza, come a voler rimarcare quanto siamo abituati in mancanza di riferimenti precisi a considerare un personaggio un bianco, ed eterosessuale aggiungerei – nella New Orleans in cui lei stessa è cresciuta, in cui la storia personale si intreccia a quella della comunità, del Paese.
La questione razziale è sicuramente centrale in questo romanzo, ma non direi che sia il centro unico intorno a cui tutto ruota o, quantomeno, non è sempre questo che determina il destino dei personaggi coinvolti. Perché, a mio parere, La libertà possibile è prima di tutto una storia che parla di legami, di famiglia, possibilità e scelte.
Il racconto si snoda su tre livelli temporali, in capitoli alternati – nei quali, il primo difetto che ho riscontrato è la rivelazione anticipata di alcuni episodi anche centrali nella trama, che fanno perdere un po’ il piacere della scoperta, l’attesa degli sviluppi – attraverso il punto di vista di Evelyn, sua figlia Jackie, suo nipote T.C., nella stessa città ma mutata nel corso del tempo e delle crisi che l’hanno travolta: la segregazione razziale e i divieti del 1944, il crack e le sirene della polizia in certi quartieri negli anni ’80, la devastazione che ha lasciato ancora cinque anni dopo l’uragano Katrina, nel 2010. Senza cedere alla retorica o al pietismo, Sexton riflette ovviamente sulle difficoltà della comunità afroamericana, le discriminazioni, gli abusi, la paura e il desiderio di riscatto contro la «più grande ipocrisia» d’America ma nel raccontare le difficoltà e le cadute di questa famiglia, sembra suggerire che più della questione razziale contino – almeno in una certa misura e in un dato momento storico – le scelte individuali.
Al cuore del racconto, si diceva, i rapporti famigliari, complicati dalle aspettative o dalle mancanze dei padri, dalle rivalità fra sorelle, dal desiderio di emanciparsi che si scontra con la dipendenza dal giudizio di chi ci vuole bene.
Solo che Sybil commentava con supponenza questioni sulle quali non si era guadagnata il diritto di intervenire. Jackie l’aveva lasciata primeggiare praticamente in tutti i campi: il lavoro, i soldi, la casa, l’automobile. E adesso cercava di primeggiare anche in una parte della sua vita che non capiva, e Jackie ne aveva avuto abbastanza. (p. 78)È un confronto che coinvolge più generazioni di questa storia, in un legame tra sorelle che sa essere allo stesso tempo strettissimo e conflittuale, velato da gelosie e desiderio di primeggiare, dimostrando di essere migliore dell’altra, più realizzata, più soddisfatta. Ma per tornare, poi, ad essere semplicemente sorelle. Una competizione che si nutre dell’approvazione genitoriale e che porta, inevitabilmente, al conflitto e alla delusione quando questa viene meno:
Niente di ciò che Evelyn diceva andava mai bene; niente di ciò che faceva le assicurava la sua approvazione (p. 46)Qualcosa con cui non si viene mai del tutto a patti, nonostante gli anni, i successi, le scelte e la propria idea di felicità. Difficile immaginarsi realizzati se sempre si cerca l’approvazione di coloro che in passato ce l’hanno negata
La libertà, l’anelito a questa condizione possibile, assume diverse sfumature di significato a partire, naturalmente, dalla conquista dei diritti civili di ogni uomo e donna per scrollarsi di dosso quel senso di impotenza, la paura, i divieti imposti dai bianchi. È la lotta di chi tenta anche di superare i limiti e le difficoltà derivanti dalla classe sociale di appartenenza, aspirando a uscire da una condizione di povertà e migliorare se non la propria vita quella dei figli e nipoti, garantendogli ciò che a loro era stato negato. Anche solo immaginare che questa libertà sia davvero possibile, per sé stessi o per le generazioni che verranno, è una forma di lotta, di orgoglio.
Nella ricerca di sé, della propria idea di felicità ed emancipazione, ci si scontra inevitabilmente con la società che vorrebbe limitare desideri e possibilità degli afroamericani, tanto ieri quanto oggi seppur in forma differenti, ma anche con la famiglia di appartenenza che non vede di buon occhio per esempio il matrimonio con un uomo di ceto sociale inferiore, troppo povero per proseguire il sogno di prosperità per le generazioni che verranno. I rancori, le mancanze, i silenzi, sono pesantissimi e hanno conseguenze talvolta devastanti.
C’è una tragicità di fondo in questa famiglia, uno spettro con cui tutti loro in qualche modo sono chiamati a confrontarsi, il rischio di cadere e fallire: nelle relazioni, nella scalata sociale, nell’acquisizione dei propri diritti. Come una maledizione sembra condannarli – non tutti certo – alla facilità con cui cedere alla dipendenza, dalle droghe, dalla smania di denaro, dagli affetti perfino. Eppure non c’è rassegnazione, né si carica l’appartenenza a una data etnia o estrazione sociale come fattore discriminante tra il successo e la caduta. Certo, essere povero e afroamericano preclude entro un certo contesto molte possibilità, ma quello che emerge dal romanzo di Sexton è la forza delle nostre scelte, la libertà di compiere da noi il nostro destino.
Questi uomini fragili e manchevoli, sono padri che non trovano la forza di andare oltre il proprio pregiudizio, di superare la dipendenza dalla droga, di non compiere ogni volta lo stesso errore e portare avanti il dramma di famiglia. Ho apprezzato il modo in cui la giovane autrice tratteggia i personaggi maschili nelle loro fragilità, nei dubbi e nelle paure che li attanagliano, imperfetti e proprio per questo reali.
Sono le scelte che facciamo a determinare quello che siamo? È qualcosa su cui senz’altro vale la pena riflettere.
Resta questo, alla fine: una storia che ne racconta numerose altre, priva di quella rabbia e forza espressiva della grande letteratura afroamericana (penso immediatamente a James Baldwin, Toni Morrisson, Colson Whitehead, solo per citarne alcuni), ma un buon debutto editoriale cui si perdona qualche debolezza e inciampo. La libertà possibile non mira a raccontare in maniera definitiva la questione razziale, quantomeno non è il senso che ne ho ricavato io, ma a riflettere sulle possibilità, sui legami entro cui ci nascondiamo, sulla libertà di compiere le proprie scelte. Ed è, infine, un omaggio a una comunità e una città martoriate dall’oppressione, dalla violenza, dalla povertà e da una catastrofe come l’uragano Katrina, ma sempre pulsante di vita, desideri, possibilità di riscatto.
Di Debora Lambruschini
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