Tutto chiede salvezza
di Daniele Mencarelli
Mondadori, 2020
pp. 197
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
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Eccoli, ognuno nel proprio angolo di stanza, indifesi
di fronte alla propria condizione, di esposti alle intemperie,
di uomini nudi abbracciati alla vita, schiacciati da un male
ricevuto in dono. I miei fratelli. (p. 170)
Sette capitoli, sette giorni, che il protagonista del nuovo romanzo di Daniele Mencarelli trascorre in un ospedale psichiatrico. Gli hanno imposto un trattamento sanitario obbligatorio dopo un irrefrenabile attacco di rabbia e lui si risveglia, già la mattina dopo, stordito in una stanza che non conosce, affollata di un’umanità variegata e a tratti inquietante. La narrazione è condotta in prima persona da una proiezione ventenne dell’autore stesso, che crea così un interessante gioco di specchi, sempre in bilico tra narrazione pura e autofiction. Il ritratto che Mencarelli ci offre del suo personaggio nel testo è quello di un ragazzo dominato dagli estremi, da un disordine interiore che si riflette all’esterno, da una energia difficile da incanalare:
Da quando sono nato non ho fatto altro che portare disordine, un’esagerazione dietro l’altra, tutto un impulso da seguire, nel bene come nel male. Non so vivere in un altro modo, non riesco a sfuggire a questa ferocia: se c’è una vetta la devo raggiungere, se c’è un abisso lo devo toccare. (p. 17)
Il personaggio guarda a se stesso con lucida onestà e colpisce per le nettezza dello sguardo, che rispecchia l’efficacia pungente del lessico. L’analisi del suo malessere ci riporta a un intimo tormento, a un bisogno che attanaglia e che è difficile da definire, quasi incomprensibile a chiunque non lo provi, ai famigliari come ai dottori che per anni con più o meno convinzione cercano di decifrare la patologia che lo affligge, cercando di ridurre alla manualistica qualcosa di più profondo e inafferrabile:
Mi piacerebbe dire a mia madre ciò che mi serve veramente, sempre la stessa cosa, da quando ho urlato il primo vagito al mondo. Quello che voglio per tanto tempo non è stato semplice da dire, tentavo di spiegarlo con concetti complicati, ho trascorso questi primi vent’anni di vita a studiare le parole migliori per descriverlo. E di parole ne ho usate tante, troppe, poi ho capito che dovevo procedere in senso contrario, così, di giorno in giorno, ho iniziato a sfilarne una, la meno necessaria, superflua. Un poco alla volta ho accorciato, potato, sino ad arrivare a una parola sola. Una parola per dire quello che voglio veramente, questa cosa che mi porto dalla nascita, prima della nascita, che mi segue come un’ombra, stesa sempre al mio fianco. Salvezza. (p. 22)
Daniele sente troppo, vive troppo e la sofferenza, l’insensatezza di questo vivere lo divora, lo consuma: “mi sono ferito con tutta la vita che potevo” (p. 130), realizza a un certo punto. Forse allora gli unici che possono capire davvero sono i compagni di ventura, quei derelitti che per caso, in quella stanza d’ospedale, incrociano la sua strada: Mario, con l’ingenuità del suo sorriso e l’abisso che ha alle spalle; Madonnina che porta in giro la sua angoscia insopprimibile; l’esuberanza di Gianluca, la coesistenza difficile con la ragazza fragile che si porta dentro; lo sguardo catatonico di Alessandro, che un giorno si è semplicemente spento alla vita; e Giorgio, goffo e grande, con il cuore buono e le ferite che continua a riaprire in nome di una madre perduta. Con queste persone, imperfette e in qualche modo profondamente affini, scatta un’empatia profonda e istintiva, una confidenza immediata che nasce perché “tra matti ci si dà del tu” (p. 48). Con loro Daniele riesce finalmente a esprimere quello che i dottori non sono mai riusciti a capire, poiché si limitano a considerare il paziente “un modesto meccanismo da rimettere in sesto, un meccanismo di fabbrica, di quelli commerciali, sfornati un poco storti dalla catena di produzione” (p. 123); solo dei suoi compagni di stanza, divenuti quasi amici, il narratore può dire che “malgrado tutte le differenze visibili e invisibili, sono la cosa più somigliante alla mia vera natura che mi sia mai capitato di incontrare” (p. 108).
Daniele Mencarelli ha il dono di una scrittura potentissima, in grado di evocare il sacro senza perdere però un briciolo di concretezza. La sua attenzione per l’umano, per il dettaglio che vivifica ed eterna, dà spessore a ogni pagina del volume, a ogni personaggio rappresentato. Con tocco lieve, talvolta persino percorso da un fremito di ironia, riesce a portare la quotidianità all’interno del reparto di psichiatria che vuole rappresentare, e che diventa così un piccolo mondo a sé stante. Un mondo da cui non è possibile evadere, se non attraverso piccoli rituali privati: per Mario il tentativo di far ordine intorno a sé, per Gianluca la cura del corpo, per Daniele la poesia, che diventa strumento per dar forma ai pensieri. L’autore è puntuale nella descrizione del processo creativo, che scava nel pensiero, nella memoria, per generare parole tanto materiche quanto salvifiche: “quando si tocca il vertice interno delle cose, un’improvvisa lucidità, parole che escono dalla terra, di carne e ossa” (p. 101). La poesia è una visitatrice silenziosa, in grado di penetrare negli spazi più angusti e di fornire un linguaggio comune a persone molto diverse. Si evince chiaramente, dalla lettura, che la ricerca attenta del testo da parte del Daniele narrato è chiaramente la stessa del Daniele narratore. I due hanno in comune una sensibilità straordinaria, una certa libertà e purezza dello sguardo che viene descritta bene nel testo:
“Io credo che gli artisti abbiano in comune con i matti una cosa: nessuno può dirgli cosa guardare e come guardarlo, chiamala libertà se vuoi. Allo stesso modo niente e nessuno può lenire il loro dolore. [...] Io credo che gli artisti, come certi matti, abbiano dentro di sé il seme di un ricordo lontanissimo, qualcosa avvenuto prima di tutte le storie. È la bellezza la scintilla di tutto. Io, ecco, credo che in certi uomini sia rimasto un ricordo, sgranato, finito nel subcosciente. Questi uomini guardano tutto per come era veramente, prima di quella cosa che è successa, e che ha cambiato tutto.” (p. 142)
È questa bellezza che esce, potente, da ogni pagina di questo romanzo. Dal legame di fratellanza che nasce tra quattro mura, dalla ribellione di chi rimette in discussione la partizione netta tra sani e malati, da chi sceglie di stare dalla parte della compassione, della pietà, del genere umano:
Vivrò da infelice, prima o poi il dolore avrà la meglio, ma non siete voi quello che voglio diventare. (p. 188)
Carolina Pernigo