Piccole
apocalissi
di Livio Santoro
Edicola, 2020
pp. 78
€ 11,00 (cartaceo)
Ritrovarsi fra le mani un volumetto
di appena 78 pagine può essere straniante: cosa si può mai raccontare in 78
pagine, ci si chiede.
Ritrovarsi fra le mani un volumetto
di appena 78 pagine contenente ben 48 racconti pone tutt’altra domanda: è
veramente possibile? E soprattutto: le storie portate al lettore hanno un
senso?
Il racconto è un’arte (nel senso originario
di ars, di tecnica: saper fare) complicata, difficile. Chiunque vi si sia
avvicinato ne sa qualcosa: come approfondire un singolo tema in poche pagine senza risultare superficiali? Come
dare spessore a dei personaggi che rischiano di restare bozze? Quali parole
usare, quali tagliare? È un atto di creazione che fa del labor limae momento fondamentale: un racconto ben strutturato è un
piccolo capolavoro.
È con curiosità e scetticismo, dunque, che mi sono avvicinato all’esordio di Livio Santoro. La curiosità chiedeva:
è possibile? Lo scetticismo sentenziava: non è possibile.
Invece è possibile. Alcuni
racconti, a dire il vero, si avvicinano, anche per struttura, più alla poesia
che alla prosa. Prendiamo il racconto Tautologia
ferroviaria a p. 46:
Un binario.
Due rotaie.
È difficile definirlo un racconto,
persino all’interno di un libro di micronarrazioni. Sono proprio questo due o tre racconti
così brevi forse il punto debole della raccolta: è che si avvicinano più alla poesia, appunto, o all'aforisma, a qualcosa che – mancando di una vera e propria narrazione – faccio fatica ad associare alla forma racconto. È l’unico, tuttavia, e salta fuori se proprio vogliamo cercare il famoso pelo nell’altrettanto famoso uovo.
Perché poi, qualche pagina prima, troviamo
un esempio magistrale di suggestione letteraria. Già dal titolo sappiamo di
avere a che fare con qualcosa di bello. Si intitola Dove si ritrovano i mostri ed è composto dalla straordinaria cifra
di 649 caratteri:
Laggiù, al centro del groviglio sotterraneo delle nere spelonche, ammassati uno sull’altro come bestie da macello, senz’aria né spazio per muovere gli arti, stavano afflitti tutti i mostri.
Per quale motivo siete qui, in questa misera grotta ristretta che nemmeno c’entrate?, chiesi all’Orco che si trovava davanti a tutti, dopo aver visto con mia stessa mestizia i mostri a quel modo assiepati. Per quale motivo non ne uscite? Fuori c’è posto, e molto!, dissi.
L’Orco chinò infelice la testa, e non mi rispose.
Ma in quei recessi, giù in fondo, sfruttando il favore dell’ombra un grugnito si fece portavoce del gruppo: Perché ci fate tantissima paura. (p. 21)
Livio Santoro ha questa capacità di
sfruttare le parole per creare immagini potentissime con la massima economia. E
con “sfruttare le parole” non intendo solo attraverso il loro significato, ché
quella è la base della narrativa: parlo proprio del loro suono, di come le
lettere, messe una accanto all’altra, si uniscono per formare qualcosa che, alla
vista prima e all’orecchio poi, emerge con prepotenza dalle pieghe della
realtà. Prendiamo «groviglio sotterraneo delle nere spelonche»: cinque
parole, 42 battute, e siamo già fuori, in un luogo indefinito e oscuro, un
luogo fiabesco che appartiene a un altro tempo. Siamo lì, in quel luogo, ma
anche altrove, nei recessi di una mente spaventata e curiosa, quale può essere
quella di un adulto che non ha mai smesso di avere paura dei mostri che sognava
da bambino e che facevano parte di un immaginario collettivo. Siamo fuori,
siamo altrove, siamo all’interno di noi stessi. Immagini esplodono ed è
impossibile fermarle.
Com’è intuibile dal racconto
riportato, non è il realismo che Livio Santoro ricerca, né l’attendibilità
delle storie. Il suo intento è scardinare la prospettiva del lettore, condurlo
in luoghi onirici, immortalare il suo stupore attraverso uno scatto fotografico
e mostrargli quel suo spaesamento attraverso una polaroid sfocata.
Farlo in
meno di mille battute è un lavoro sporco, ma qualcuno deve pur farlo.
David Valentini