Ai tempi del Bœuf sur le toit
di Maurice Sachs
traduzione dal francese di Federico Zaniboni
Lindau, 2020
pp. 252
€ 22,00 (cartaceo)
€ 14,99 (ebook)
Sarebbe mai stato possibile annoiarsi Ai tempi del Bœuf sul le toit? Primo dopoguerra, Parigi: un senso di vittoria e un desiderio di cesura con il recente passato bellico che pretende la sua rivendicazione a suon di canti, balli, arte e socialità esasperata. Tra i molti locali diurni e notturni in cui si celebra il rito della ritrovata dimensione mondana c’è anche, per l’appunto, il celebre cabaret da cui prende il titolo il libro di memorie scritto da Maurice Sachs (1906-1945) appena tradotto e pubblicato nella sua versione italiana dalla casa editrice Lindau: un punto di ritrovo che diventa correlativo oggettivo di un’epoca effervescente di inquietudini, in cui i patimenti dell’appena concluso conflitto andavano esorcizzati in un tourbillon de la vie forsennato e finanche estenuante.
Uomo del suo tempo, Maurice Sachs visse una vita evidentemente sopra le righe: troppo poco talentoso o magari troppo sfortunato per riuscire a imporsi esclusivamente per le sue scritture, fu tuttavia una presenza fissa dell’ambiente intellettuale e artistico della Parigi di inizio Novecento; una frequentazione assidua e del tutto interessata, la sua, grazie alla quale l’indole essenzialmente pigra dell’uomo poteva peraltro fuggire la persecuzione del senso di colpa data dalla consapevolezza di appartenere a una categoria privilegiata. Anche se la sorte, purtroppo, gli avrebbe riservato poco più tardi un’uscita di scena di puro contrappasso: divenuto spia e collaboratore della Gestapo – al netto dell’omosessualità e dell’origine ebraica – sarebbe caduto vittima degli stessi tedeschi in fuga con cui non aveva esitato a compromettersi, i quali lo imprigionarono e infine uccisero con un’esecuzione sommaria. Ad ogni modo, nel momento in cui decise di mettere per iscritto i casi della sua esistenza, Sachs redasse in piena consapevolezza – non ultima quella dell’artificio retorico – il Diario di un giovane borghese all’epoca della prosperità (14 luglio 1919-30 ottobre 1929). Ed era un bel ragazzo frivolo e volubile quello che, dapprima con cura quasi quotidiana e poi dopo una lunga ellissi durata ben otto anni (dal 23 dicembre 1920 ci si ritrova di colpo al 28 giugno 1928!), racconta la joie de vivre tutta francese e parigina, cedendo opportunamente “la parola” anche all’amico Blaise Alias affinché colmi con i suoi appunti le lacune sui moltissimi mesi non commentati in prima persona perché troppo impegnato a divertirsi con tutti e con tutto.
Nel prendere confidenza con la vita privata del principale scrivente e del suo comprimario si procede avidi e veloci, con la curiosità e l’invadenza necessarie alla degustazione di pagine fitte di aneddoti e scenette, impressioni e giudizi, resoconti e bilanci (evidentemente privi, questi ultimi, della giusta distanza storica per essere ragionevolmente affidabili). Con i sensi accesi e l’intenzione di non perdere nessuna occasione che la mondanità può offrigli, Maurice trascorre giorni e notti a tu per tu con il meglio dell’intellighenzia che anima la Ville Lumière, fino a riconoscere come amici e trattare quasi familiarmente personaggi destinati a diventare simbolo di una temperie quali Jean Cocteau, Picasso e Coco Chanel. Pieno di energia da consumare, Maurice assiste alle peripezie dadaiste e surrealiste, frequenta cinema e teatri, chiacchiera moltissimo e non perde né una replica dei Ballets Russes né un invito a danzare dentro un locale fumoso o durante qualche festa privata con dress code imposto. Sempre in pista, sempre in moto, sempre pronto a registrare le novità più degne di nota – l’ultima moda, l’ultima pubblicazione, l’ultimo spettacolo, l’ultima critica, l’ultimo pettegolezzo – e a renderne conto sulla carta ogni qualvolta gli è possibile (la vita mondana, si sa, è spesso causa di cedimento fisico e decadimento psicologico). In queste memorie, però, non c’è spazio per vere e proprie tranches narrative: l’andamento, come non di rado accade nel caso della prosa diaristica, è sempre piuttosto breve e sincopato, fatta eccezione per quei brani in cui il desiderio di una cronaca pura dell’accaduto va di pari passo con quello di una riflessione di più ampio respiro sull’epoca e sulla propria personale condotta. Il che, per certi versi, traduce bene e con appropriata corrispondenza l’attitudine di chi scrive – sia esso Maurice o Blaise – nel suo oscillare tra slanci vitali e stasi abuliche, picchi di euforia e abissi di costernazione. Gli stessi anni Venti, in questo, sembrano compiere in pieno quella parabola di ruggiti e miagolii che li avrebbe resi così famosi e caratteristici per i posteri, un’epoca in cui gli eccessi generalmente intesi avrebbero presto esaurito la loro carica per lasciare spazio a ben altri fanatismi e deliri della ragione e dei sensi.
Leggere Ai tempi del Boeuf sur le toit lascia in bocca l’amaro di certi liquori forti e decadenti. Non solo perché la conclusione coincide con la resa del suo compilatore al conto preciso e impietoso presentato dalla Storia – la crisi del 1929, il tracollo economico e sociale, la fine di un otium del tutto improduttivo e ormai percepito come orizzonte esistenziale odioso e parassitario – ma perché la sensazione dominante è quella del risveglio da un’ubriacatura perenne durata all’incirca un decennio. L’ingresso negli anni Trenta, anticamera di uno degli abissi più profondi dell’intera umanità e di una discesa agli inferi da cui Maurice Sachs, per primo, non sarebbe riaffiorato, pretende che le scarpe da ballo vengano definitivamente appese al chiodo, che le nuove calzature siano comode e pronte all’usura, i passi ordinati, le traiettorie imposte. Si chiude il libro con la stessa sensazione di quando si riaccendono le luci di sala di un cinema, di un teatro, di una dancing hall: insieme a Maurice Sachs abbiamo conosciuto la dolcezza del vivere fino alla stucchevolezza, e conclusa l’ultima pagina e constatato l'addio che il narratore dice "al lusso, al superfluo e a se stesso", siamo chiamati ad accettare il fatto che le carezze sul palato, da questo momento in poi, saranno solo un ricordo (certo soavissimo) di avventatezza e gioventù.
Cecilia Mariani
di Maurice Sachs
traduzione dal francese di Federico Zaniboni
Lindau, 2020
pp. 252
€ 22,00 (cartaceo)
€ 14,99 (ebook)
Sarebbe mai stato possibile annoiarsi Ai tempi del Bœuf sul le toit? Primo dopoguerra, Parigi: un senso di vittoria e un desiderio di cesura con il recente passato bellico che pretende la sua rivendicazione a suon di canti, balli, arte e socialità esasperata. Tra i molti locali diurni e notturni in cui si celebra il rito della ritrovata dimensione mondana c’è anche, per l’appunto, il celebre cabaret da cui prende il titolo il libro di memorie scritto da Maurice Sachs (1906-1945) appena tradotto e pubblicato nella sua versione italiana dalla casa editrice Lindau: un punto di ritrovo che diventa correlativo oggettivo di un’epoca effervescente di inquietudini, in cui i patimenti dell’appena concluso conflitto andavano esorcizzati in un tourbillon de la vie forsennato e finanche estenuante.
Uomo del suo tempo, Maurice Sachs visse una vita evidentemente sopra le righe: troppo poco talentoso o magari troppo sfortunato per riuscire a imporsi esclusivamente per le sue scritture, fu tuttavia una presenza fissa dell’ambiente intellettuale e artistico della Parigi di inizio Novecento; una frequentazione assidua e del tutto interessata, la sua, grazie alla quale l’indole essenzialmente pigra dell’uomo poteva peraltro fuggire la persecuzione del senso di colpa data dalla consapevolezza di appartenere a una categoria privilegiata. Anche se la sorte, purtroppo, gli avrebbe riservato poco più tardi un’uscita di scena di puro contrappasso: divenuto spia e collaboratore della Gestapo – al netto dell’omosessualità e dell’origine ebraica – sarebbe caduto vittima degli stessi tedeschi in fuga con cui non aveva esitato a compromettersi, i quali lo imprigionarono e infine uccisero con un’esecuzione sommaria. Ad ogni modo, nel momento in cui decise di mettere per iscritto i casi della sua esistenza, Sachs redasse in piena consapevolezza – non ultima quella dell’artificio retorico – il Diario di un giovane borghese all’epoca della prosperità (14 luglio 1919-30 ottobre 1929). Ed era un bel ragazzo frivolo e volubile quello che, dapprima con cura quasi quotidiana e poi dopo una lunga ellissi durata ben otto anni (dal 23 dicembre 1920 ci si ritrova di colpo al 28 giugno 1928!), racconta la joie de vivre tutta francese e parigina, cedendo opportunamente “la parola” anche all’amico Blaise Alias affinché colmi con i suoi appunti le lacune sui moltissimi mesi non commentati in prima persona perché troppo impegnato a divertirsi con tutti e con tutto.
Nel prendere confidenza con la vita privata del principale scrivente e del suo comprimario si procede avidi e veloci, con la curiosità e l’invadenza necessarie alla degustazione di pagine fitte di aneddoti e scenette, impressioni e giudizi, resoconti e bilanci (evidentemente privi, questi ultimi, della giusta distanza storica per essere ragionevolmente affidabili). Con i sensi accesi e l’intenzione di non perdere nessuna occasione che la mondanità può offrigli, Maurice trascorre giorni e notti a tu per tu con il meglio dell’intellighenzia che anima la Ville Lumière, fino a riconoscere come amici e trattare quasi familiarmente personaggi destinati a diventare simbolo di una temperie quali Jean Cocteau, Picasso e Coco Chanel. Pieno di energia da consumare, Maurice assiste alle peripezie dadaiste e surrealiste, frequenta cinema e teatri, chiacchiera moltissimo e non perde né una replica dei Ballets Russes né un invito a danzare dentro un locale fumoso o durante qualche festa privata con dress code imposto. Sempre in pista, sempre in moto, sempre pronto a registrare le novità più degne di nota – l’ultima moda, l’ultima pubblicazione, l’ultimo spettacolo, l’ultima critica, l’ultimo pettegolezzo – e a renderne conto sulla carta ogni qualvolta gli è possibile (la vita mondana, si sa, è spesso causa di cedimento fisico e decadimento psicologico). In queste memorie, però, non c’è spazio per vere e proprie tranches narrative: l’andamento, come non di rado accade nel caso della prosa diaristica, è sempre piuttosto breve e sincopato, fatta eccezione per quei brani in cui il desiderio di una cronaca pura dell’accaduto va di pari passo con quello di una riflessione di più ampio respiro sull’epoca e sulla propria personale condotta. Il che, per certi versi, traduce bene e con appropriata corrispondenza l’attitudine di chi scrive – sia esso Maurice o Blaise – nel suo oscillare tra slanci vitali e stasi abuliche, picchi di euforia e abissi di costernazione. Gli stessi anni Venti, in questo, sembrano compiere in pieno quella parabola di ruggiti e miagolii che li avrebbe resi così famosi e caratteristici per i posteri, un’epoca in cui gli eccessi generalmente intesi avrebbero presto esaurito la loro carica per lasciare spazio a ben altri fanatismi e deliri della ragione e dei sensi.
Leggere Ai tempi del Boeuf sur le toit lascia in bocca l’amaro di certi liquori forti e decadenti. Non solo perché la conclusione coincide con la resa del suo compilatore al conto preciso e impietoso presentato dalla Storia – la crisi del 1929, il tracollo economico e sociale, la fine di un otium del tutto improduttivo e ormai percepito come orizzonte esistenziale odioso e parassitario – ma perché la sensazione dominante è quella del risveglio da un’ubriacatura perenne durata all’incirca un decennio. L’ingresso negli anni Trenta, anticamera di uno degli abissi più profondi dell’intera umanità e di una discesa agli inferi da cui Maurice Sachs, per primo, non sarebbe riaffiorato, pretende che le scarpe da ballo vengano definitivamente appese al chiodo, che le nuove calzature siano comode e pronte all’usura, i passi ordinati, le traiettorie imposte. Si chiude il libro con la stessa sensazione di quando si riaccendono le luci di sala di un cinema, di un teatro, di una dancing hall: insieme a Maurice Sachs abbiamo conosciuto la dolcezza del vivere fino alla stucchevolezza, e conclusa l’ultima pagina e constatato l'addio che il narratore dice "al lusso, al superfluo e a se stesso", siamo chiamati ad accettare il fatto che le carezze sul palato, da questo momento in poi, saranno solo un ricordo (certo soavissimo) di avventatezza e gioventù.
Cecilia Mariani