Giovanissimi
di Alessio Forgione
NN Editore, 2020
pp. 223
€ 16,00 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
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Nel rendersi conto che la partizione del libro segue le cinque fasi dell’elaborazione del lutto proposte da Elizabeth Kübler Ross, al lettore immediatamente viene da chiedersi quale sia il lutto e chi sia ad attraversarlo. Lo attraversa, pur senza riuscire a verbalizzarlo, il giovane narratore: quattordici anni, promessa del calcio (gioca nei Giovanissimi Regionali della Pro Calcio Napoli), un padre amato ma con cui fatica a comunicare. Nella sua vita, il vuoto di una madre assente, su cui pesano i mormorii della gente: “Mia mamma, per me, era uno schiaffo in faccia, una ferita aperta. Un fischio nell’orecchio, che saliva e scendeva e disturbata e copriva tutto” (p. 13). E poi i sogni della gioventù, le fantasticherie alimentate dai giornaletti illustrati, i piccoli atti da teppista (bigiare la scuola, incidere con gli amici il segno del proprio passaggio sul finestrino di un autobus). Questa è l’esistenza di Marocco, ma anche quella dei suoi compagni, mentre gli adulti non ci sono, o sono poco attenti, o poco consapevoli. Ognuno dei ragazzi trova un modo del tutto personale per nascondere il proprio malessere interiore: “Non risposi nulla e continuai a fingere. Perché mia madre non stava sulla Luna ma nemmeno a casa” (p. 16).
La narrazione procede con una prosa prevalentemente paratattica, per associazioni di idee incongrue, tipiche del pensiero e della scrittura giovane, che l’autore riesce a riprodurre con straordinaria verosimiglianza. Non c’è nulla di superfluo nel fraseggio di Forgione: il periodo è scarnificato, riportato all’essenza delle parole e per questo incredibilmente incisivo. Ogni personaggio pare una meteora alla deriva e tutto ciò che conta non viene espresso, ma emerge dal non detto.
Mi piaceva che la gente mi chiamasse Marocco. Non mi piaceva che si parlasse di mia madre. Solo mio padre poteva farlo ma non lo faceva mai.
Indietreggiò di un passo e mi guardò. “Papà” dissi e lui urlò e mi spinse via, lontano dalla lavatrice, lontano da lui, e non urlò una parola, ma un suono. Aprì le ante dei mobili della cucina e prese i piatti e li scagliò per terra ed io lo guardavo e li vedevo rompersi e vedevo le schegge volare via e disperdersi ovunque. Nel frattempo, urlava ancora, con una voce sempre più forte e dolorosa e debole, ferita, ma sempre senza parole e continuò e quando ebbe finito, quando non rimase nemmeno un piatto, si piegò sulle ginocchia e aveva il fiatone. Io presi la scopa e la paletta e quella sera non mangiammo. Perché non ne avevamo voglia e perché, pure se avessimo voluto, non avremmo avuto un solo piatto per farlo. (p. 43)
Quella di Marocco è una vita subìta, più che vissuta attivamente. La scuola non sa offrire risposte o alternative, il successo nel calcio è un miraggio non ancora a portata di mano. E allora è facile cedere alle lusinghe della facilità, o alla proposta di Lunno, amico carissimo, che decide di avviare una piccola attività di spaccio. Per Marocco non si tratta di una scelta, ma piuttosto di una resa inevitabile, altresì di una forma di ribellione rispetto a un mondo adulto che non si fa portatore di alcuna certezza:
Riuscivo a pensare solo al Natale, che speravo non arrivasse mai e invece arrivò, presto, e mi venne incontro correndo, mentre la vita procedeva indifferente, e mentre andavo male a scuola e mi preparavo a diventare cattivo e mi tenevo tutto dentro, cercando di sembrare normale. (p. 48)
Non c’è, nella descrizione di Forgione, nessun tentativo di formulare o suggerire una condanna: solo il lettore può avere la tentazione di giudicare l’agire dei personaggi, subito dissuaso dall’evidenza che ogni azione, ogni scelta, è frutto di specifiche contingenze e di una certa dose di sfortuna, non certo specchio di una diffusa deriva morale giovanile. Percorsi sbagliati, o pericolosi, intraprendono anche gli amici di Marocco, ugualmente dispersi nel mondo, alcuni con esiti tragici che paiono predeterminati e fanno sobbalzare d’ingiustizia:
Sentivo che prima o poi anche la mia vita sarebbe finita o si sarebbe rovinata del tutto e che non avevo la possibilità di evitarlo né la forza per cambiare rotta. (p. 166)
Ad affliggere questi ragazzini è una solitudine atavica e profonda, che nulla riesce a colmare e che deve essere tenuta nascosta, perché nel mondo duro delle periferie non c’è spazio per la debolezza (ma Marocco, che la prova e la riconosce in sé, sa essere amico fedele e non giudicante): “Non gli dissi che la mattina mi svegliavo stanco. Non gli dissi che passavo le notti allenandomi a non soffrire”. (p. 128)
Quella che viene raccontata è un’adolescenza nuda, spogliata di ogni orpello, raffigurata con tutte le sue contraddizioni. Nella vita di Marocco arriva a un tratto l’amore, incarnato da Serena, dolce ma determinata, che spalanca nuovi universi e dà un nuovo respiro alla prosa, pur senza riuscire a scacciare l’altro fantasma del femminile che continua ad angosciare il ragazzo: quella figura materna assente, eppure onnipresente nella memoria e nel sogno.
Nel procedere del tempo e del percorso di crescita, però, ci si apre agli altri e si scoprono cose che in realtà si erano sempre sapute: ecco il senso dei versi di Battiato citati in più punti del testo, consonanza prima ignota con l’esistenza del protagonista. La difficoltà, nella totale assenza di punti di riferimento, è crearsene di nuovi: capire cosa è importante, a chi si vuole assomigliare; trovare il coraggio di liberarsi dei fardelli e di farsi amare di nuovo (“in un angolo della mia testa, mattone dopo mattone, muravo viva mia madre, per lasciare il resto dello spazio al resto della mia vita”, p. 189). Se serve, guardarsi in faccia e dire ad alta voce di cosa si ha bisogno; oppure prendere e partire per una grande avventura.
E mentre il lettore si avvia incauto verso un desiderato lieto fine, ecco che si trova, bruscamente riscosso, a dover condividere il pensiero improvviso di Marocco: “non sapevo nulla e pensavo un sacco e mi sembrava di sapere e quella presunzione era un’armatura, che mi venne portata via, lasciandomi del tutto nudo” (p. 218). Si realizza, a pensarci bene, che la formazione umana è un percorso senza fine. Che l’itinerario dell’esistenza è impredicibile e la vita non è altro che l’attesa di uno scarto improvviso. Così anche la partizione del testo che si pensava di aver compreso e di dominare pienamente assume in coda al romanzo un significato tutto nuovo, che obbliga a rivedere quanto già assimilato e ad attribuirgli un significato radicalmente nuovo, decisamente più amaro.
Carolina Pernigo