di Antonio Scurati
Bompiani, 2011
pp. 370
€ 12 (cartaceo)
€ 4,99 (ebook)
È un incipit violentissimo quello a Il sopravvissuto di Antonio Scurati, e forse il motivo per cui il libro è rimasto per tanti anni chiuso a impolverarsi su uno scaffale della libreria. Da insegnante, per tanto tempo, semplicemente non me la sono sentita. Oggi invece scelgo di riprovarci, forse anche perché i cambiamenti imposti da questo periodo di tregenda alla didattica, così come la mancanza che si avverte pungente di un rapporto con gli studenti concreto, umano, fatto di gestualità reciproche e condivise, di un passeggiare nervoso per l’aula, di sguardi scambiati per incoraggiare o risvegliare, portano a riflettere con più intensità sull’importanza della missione educativa, della scuola come luogo primario di formazione e non solo di trasmissione di contenuti.
Vitaliano Caccia ci massacrò a colpi di arma da fuoco il 18 giugno 2001, tre giorni prima del solstizio d’estate. Ci sterminò con una pistola semiautomatica, [...] sparandoci a sangue freddo e a bruciapelo.
Il Prologo si configura in realtà come un violento atto d’accusa, non già nei confronti dell’assassino, ma del sopravvissuto. L’ottavo uomo, quello lasciato in vita. Quello che non ha saputo vedere il male, che l’ha frainteso in ogni sua manifestazione. Lui, cieco, che ha cercato attenuanti, spiegazioni alternative. E adesso, a posteriori, superstite forse solo nel corpo, conduce una durissima riflessione esistenziale sul presente:
Vitaliano era la gioventù che ha orrore del vuoto e che dunque fa il vuoto attorno a sé. Lui era quello che in altri tempi si sarebbe detto un giovane “caro agli dei”. E questo provava, al di là di ogni ragionevole dubbio, che di questi tempi gli dei erano diventati malattie.
Antonio Scurati stordisce con una prosa molto ricercata, ricca di preziosismi, di cui avevo sentito parlare senza potermela immaginare davvero. Al contempo, però, c’è qualcosa di profondamente vivido nell’afa strisciante, nei miasmi che saturano l’aria di Casalegno, nella tensione che cresce minuto per minuto, almeno per il lettore, che sa già cosa deve accadere alle 8.46 del 18 giugno. La narrazione in terza persona accompagna il protagonista, Andrea Marescalchi, professore di storia e filosofia, verso l’aula dove avranno luogo gli orali dell’Esame di stato. Il primo candidato, Vitaliano Caccia, è uno studente indisponente, problematico e la commissione ha già deciso che lo boccerà per la seconda volta consecutiva. “Meriterebbero di essere ammazzati tutti”, pensa il professore, in un impeto di rabbia. Lui che in Caccia ha in qualche modo creduto. È nello scarto che si crea tra pensiero e azione che si annida tutto l’orrore del romanzo di Scurati.
La variazione continua dei tempi verbali nell’alternarsi dei paragrafi obbliga il lettore a continui, minimi aggiustamenti della prospettiva sugli eventi. Il romanzo procede tracciando, scandita giorno per giorno, una cronaca delle difficoltà della sopravvivenza. Dopo la sparatoria, ad Andrea tutto sembra estraneo, spropositato. Lo stesso proseguire ordinario dell’esistenza è inaccettabile: “l’ostinazione della terra nel ruotare sul proprio asse nonostante tutto quello che era accaduto gli parve una volgare indelicatezza: la legge di gravitazione universale mancava di tatto”. La sua condizione, ribadita dalla brutalità sgradevole delle domande dei giornalisti, diventa condanna, predestinazione. L’evento luttuoso ha segnato in maniera indelebile l’identità di Andrea, ridefinendola radicalmente e senza possibilità di scampo:
“Professor Marescalchi, cosa si prova a essere un sopravvissuto?”
Andrea ha l’immediata consapevolezza che una triviale formula giornalistica abbia fissato per sempre la sua identità. […] A lei Andrea Marescalchi sarà tributario per il resto della vita della propria concezione di sé. Un sopravvissuto. […] Per lui il dito rimarrà sempre sul grilletto.
Scurati fa uso di una lingua metaforica, plastica, a volte ridondante, che non riesce a essere mimetica (così tutti i personaggi parlano come Scurati scrive); una lingua che ben si presta alla rappresentazione grottesca di tutti i cerimoniali, pubblici e privati, che circondano la morte. Tutti hanno da dire la loro, per lo più lontani dalla verità, come segnalano anche i titoli di capitoli che si alternano a quelli della pura narrazione: “Ciò che disse il medico”, “Ciò che disse il prete dal pulpito”; “Ciò che disse il prete al cimitero”, “Ciò che disse il criminologo”, e così via...
Nel procedere delle pagine si complica la galleria dei personaggi, che emergono spessi dal fondale magmatico del testo: un prete che ha visto il fallimento di Dio, un padre svuotato di tutto che mette una taglia sulla testa dell’assassino. Nessuno pare in grado di trovare un significato all’accaduto. Neppure la voce che emerge dal deserto della coscienza del sopravvissuto. A porsi in maniera evidente, del tutto contrastata dal protagonista, è l’idea di un radicale, irriducibile conflitto generazionale, l’identificazione di un miasma pestifero che colpisce chiunque abbia meno di vent’anni e che si traduce in un presunto odio diffuso verso il mondo adulto. Eppure questo romanzo, che pure sembra parlare dei giovani, in realtà parla di un’altra generazione, quella a cui appartiene anche il sopravvissuto, una generazione che, nel libro, non riesce a fare i conti con il proprio fallimento, educativo ed esistenziale:
Quel ragazzo con la sua pistola era stato per tutti loro una catastrofe naturale. Non un agente umano del male, di fronte al quale la comunità si rinnova. Gli abitanti di Casalegno, riuniti in piazza della Liberazione, non erano i membri di una cittadinanza affratellata del pericolo, ma una massa eterogenea di terremotati che pernottano in strada perché le loro case non sono più sicure. Perché nelle loro case, in agguato nella penombra azzurrognola dei televisori, accesi su un canale morto, ci sono ad attenderli i loro figli.
Soltanto quando Andrea riesce a escludere il vociare confuso della società e a riportare gli eventi a un fatto personale, che ha coinvolto direttamente e per un motivo specifico tanto lui quanto Vitaliano Caccia, può iniziare la seconda parte del romanzo, quella della ricerca, quella in cui si prova a capire quando e come è stata posta “l’ascia ai piedi dell’albero”, quell’ascia che poi il giovane Vitaliano ha potuto brandire. La comprensione diventa destino, investitura sacra. Risalire all’indietro, scavare nella sua relazione con l’assassino, è però per il sopravvissuto, per l’eletto, anche uno sprofondare sempre di più dentro se stesso, verso il ragazzo che a sua volta è stato, e verso l’uomo, e l’insegnante, che è diventato:
Nell’istante stesso in cui aveva capito che all’origine del gesto insano compito dal ragazzo c’era lui, il suo magistero, il suo personalissimo rapporto spirituale con l’allievo Vitaliano Caccia, il professor Marescalchi aveva deciso di abbracciare la croce: avrebbe cercato la ragione di quello sproposito, il ramo storto su cui braccio era gemmata la sciagura, e una volta trovatolo ci si sarebbe impiccato.
Se il tempo nella prima sezione del volume era parso dilatato all’inverosimile, estenuato anche dal clima asfittico che l’autore riesce a evocare, nella seconda accelera, attraversando l’estate in un percorso di scoperta che porta sempre di più Andrea, nel ripercorrere gli eventi dell’anno scolastico trascorso, a identificarsi con il carnefice e a scardinare le proprie stesse credenze pregresse. Trovare il senso è necessario, per continuare a vivere, quanto eventualmente per congedarsi dalla vita. Il limite che il sopravvissuto si dà è l’inizio del nuovo anno scolastico, il momento di varcare di nuovo quel “prefabbricato giallo, torrido d’estate e ghiacciato d’inverno, buono per coltivarci orchidee e stivarci casse di carciofi più che per allevare i figli dell’uomo”.
Nel corso della ricerca, dalle pagine emerge anche un’amara, impietosa analisi del mondo della scuola, una scuola che rischia di dimenticarsi la necessità di aderire al reale e che talvolta sottovaluta gli studenti, perdendo di vista lo scopo della missione educativa, o considerandola persa in partenza. L’ipotesi di un “incolmabile ritardo della scuola sulla vita”, di una tendenza a non rendersi conto che gli studenti sono portatori del vero umanesimo, quello che si sperimenta all’interno dell’esistenza e che interroga il senso di quella stessa esistenza, è qualcosa che dà da pensare al lettore, specie se insegnante a sua volta. E induce al tempo stesso un forte senso di ribellione, perché quella ritratta da Scurati non è la scuola di oggi, una scuola militante, che scende in campo in prima persona per incidere davvero, cambiare davvero (se stessa, in prima istanza). Alla fine, Il sopravvissuto rimane una lettura dura, come duro ne era stato l’incipit. Una lettura che forza a ripensare ai rapporti tra le generazioni, alle incongruenze della società, ai pericoli legati a una scuola che perde il suo slancio, agli errori di valutazione di cui a volte siamo vittime. Una lettura rispetto alla quale, però, si finisce per dissentire e da cui si esce con una rigenerata vena combattiva.
Carolina Pernigo