di Charles Portis
Traduzione di Marco Rossari
Giano, 2011
Prima edizione italiana 1969 (Un vero uomo per Mattie Ross, Club degli Editori)
pp. 175
€ 15 (cartaceo)
"La gente non crede che una ragazza di quattordici anni possa lasciare la propria casa in inverno per vendicare il proprio padre, ma non era così strano allora, anche se devo ammettere che non era cosa che succedesse tutti i giorni. Io avevo appena quattordici anni quando un codardo chiamato Tom Chaney uccise mio padre a Fort Smith, Arkansas, e lo derubò della sua vita, del suo cavallo, di centocinquanta dollari in contanti e di due pezzi d'oro della California che portava nella cintura dei pantaloni."
Jim Harrison, grande romanziere americano pressoché
sconosciuto in Italia e scomparso qualche anno fa, sosteneva che uno dei
compiti di uno scrittore è quello di dare voce a chi voce non ha; e se è
necessario narrare la storia di una ragazzina adolescente, lo scrittore deve
diventare quella ragazzina.
Questo preambolo per introdurre un romanzo del 1968 scritto
da Charles Portis, altro grande autore scomparso da pochi mesi. Il Grinta è un western,
quindi una storia di sparatorie, cavalcate, whisky, sudore e sangue, visto però
dall’insolita prospettiva di una ragazzina quattordicenne; in realtà il
racconto è a opera della donna ormai invecchiata, ma lo scorrere delle pagine
renderà evidente come la stessa non abbia perso, con gli anni, l’innocenza, la
testardaggine e la leggera ottusità dei suoi quattordici anni.
La trama, dunque: Mattie Ross è una quattordicenne
dell’Arkansas (che si pronuncia àrkenso, sappiatelo) che lascia la madre e i
fratelli più piccoli per recuperare la salma del padre, ucciso a sangue freddo e
derubato da Tom Chaney, un dipendente che lo accompagnava per un acquisto di
cavalli a Fort Smith, una novantina di miglia a ovest. La ragazza, in realtà, è
determinata a dare la caccia a Chaney per catturarlo e affidarlo alla
giustizia, e per questo motivo, una volta giunta a Fort Smith, raccoglie
informazioni per incaricare un agente federale che la accompagni nella ricerca
dell’assassino. Quando lo sceriffo le elenca le caratteristiche dei più
efficienti, Mattie senza esitazione sceglie Rooster Cogburn, the meanest one, il più cattivo a detta
dello sceriffo.
Le cose per la ragazzina si complicano quando Cogburn
accetta l’incarico ma non vuole che la ragazza lo accompagni in territorio
indiano alla ricerca di Chaney e ancora di più quando entra in scena LaBoeuf
(si pronuncia Labìf, ma è Mattie a precisarlo, mica io), un Ranger del Texas
sulle tracce dello stesso criminale, che si scopre avere un nome diverso ed essere ricercato per altri omicidi. Sarà
però impossibile per i due uomini, duri, spietati e coriacei quanto nessun
altro, impedire a Mattie di partecipare alla caccia all’uomo, sconcertati e
disarmati di fronte alla cocciutaggine e alla determinazione della ragazza.
Ora, al di là della trama, coinvolgente e dinamica quanto
basta, quello che emerge dalla lettura di questo piccolo capolavoro è proprio
la capacità di Portis di sondare la psicologia di una ragazza cresciuta nel
West rurale di fine Ottocento e di restituirne atteggiamenti e modalità
comportamentali e di interazione. Mattie è rigidamente ancorata alle sue convinzioni
e racconta i fatti con tono didascalico e catechistico, come sostiene Donna
Tartt nella prefazione a un’edizione inglese del 2004; il flusso narrativo è
costantemente interrotto da digressioni moraleggianti o da riflessioni di un’ingenuità
disarmante: non c’è evoluzione fra la Mattie adulta e la Mattie quattordicenne,
la prima è un’interprete fedele dei ricordi che affiorano dopo tanti anni, e
proprio questo tono didascalico e catechistico impedisce di pensare a un
racconto alterato in qualsivoglia maniera; è sorprendente l’atteggiamento
tenuto dalla ragazza di fronte alla crudezza del mondo della Frontiera, fatto
di impiccagioni, accoltellamenti e morti cruente. Ecco, proprio di fronte a un
malvivente ferito seriamente da Cogburn durante la caccia a Chaney, Mattie
rivela il proprio carattere di rigida presbiteriana, fatto di reminiscenze bibliche
citate con il ditino alzato, di certezze granitiche e di una notevole tempra che
le permette di non perdere il controllo di sé in un frangente particolarmente
violento e sanguinoso. Questa sua rigidità crea un dialogo surreale con il
bandito e con il suo complice, quest’ultimo aggressivo e minaccioso verso il
compagno sofferente per la ferita e disposto a collaborare con Cogburn e
LaBeuf. A entrambi i prigionieri la ragazza si approccia con una noncuranza che
li lascia interdetti, presentandosi in modo inappuntabile, petulante e
indagatorio, addirittura chiedendo conto del perché i banditi abbiano deciso di
condurre quel tipo di vita. Insomma, uno scambio di battute che sconcerta anche
il lettore e alimenta quell’aura di comicità un po’ macabra ma sorprendente che
pervade tutto il romanzo.
L’altro personaggio memorabile del libro è Rooster Cogburn, Marshal federale brutto sporco e cattivo, guercio e ubriacone, violento e
meraviglioso in tutta la sua insensibilità. Cogburn rivela pienamente il suo essere nella
scena in cui per la prima volta compare: è Mattie che lo osserva mentre in un’aula
di tribunale Rooster rende testimonianza in seguito all’arresto di un ricercato. Un altro
godibilissimo scambio di battute, praticamente verbalizzato da Mattie nel suo
racconto, in cui Cogburn risponde alle domande del Pubblico Ministero con
ironia e spudoratezza ma anche con una certa circospezione per il rischio di
finire egli stesso al posto dell’imputato a causa della carneficina che ha
scatenato per catturare il prigioniero.
È interessante vedere l’evoluzione del rapporto fra Mattie e
Rooster: da una palese diffidenza reciproca iniziale e da un malcelato (anzi no,
proprio evidente) disprezzo della ragazza per il modus vivendi da straccione di
Cogburn, l’atteggiamento di Mattie verso l’uomo muta progressivamente verso una
sostanziale stima, man mano che Cogburn rivela qualità inaspettate come professionista
ma anche dal punto di vista umano. Sarà lui, infatti, a portare in braccio per
miglia la ragazza ferita dopo lo scontro con Chaney e i suoi complici. E lo
stesso Rooster cambierà opinione su quella ragazzina impertinente, dopo che la
stessa avrà passato le stesse fatiche di un adulto temprato, fatte di giorni
interi a cavallo, notti all’addiaccio ed esposizione ai più diversi pericoli.
Altro aspetto degno di nota, forse non individuabile a
una lettura superficiale, è una riflessione sul concetto di giustizia in senso
retributivo, vero pilastro del sistema giudiziario statunitense: Mattie vuole
che Tom Chaney sia catturato vivo, processato, condannato e impiccato per aver
ucciso suo padre, e non accetta che il Ranger LaBeuf (si pronuncia Labìf,
ricordate?) lo traduca in Texas perché sia processato per un diverso omicidio.
In realtà la sorte dell’uomo non cambierebbe, ma Mattie, nella sua rigidità
calvinista, esige che la pena sia direttamente correlata al delitto verso la
sua famiglia e a nessun altro.
True Grit fu pubblicato in Italia per la prima volta nel
1969, in seguito all’uscita del film di Henry Hathaway che diede l’Oscar a John
Wayne; scomparso ben presto dalle librerie, è stato ripubblicato nel 2011 dopo il
successo del remake dei fratelli Coen, che rispetto al film di Hathaway esprime
una maggiore crudezza e un realismo impietoso (ma questo è un segno dei tempi,
nulla ha che fare con l’abilità dei diversi registi).
Scritto nel 1968, il romanzo interpreta un po’ la fine dell’epopea
western, attraverso i ricordi di Mattie e in special modo nelle pagine finali
in cui la donna, che porta sul corpo i segni dell’avventura vissuta, assiste
allo sfarinamento del mito, con i suoi grandi protagonisti ridotti a vivere
alla giornata come attrazioni nei vari, tristissimi Wild West Show e spogliati
di quell’alone di leggendarietà che li aveva resi famosi.
Il Grinta è uno di quei romanzi da riprendere più volte nel
tempo, magari solo per rileggerne poche pagine, per gustarsi i dialoghi tra i
diversi personaggi o le numerose scene di azione, ma soprattutto per l’unicità
del tono narrativo della protagonista. In questo senso Charles Portis ha fatto
esattamente ciò che il grande Jim Harrison, altro cantore della Frontiera
americana, riteneva un preciso compito dello scrittore. Ma questo l’ho già detto.
Stefano Crivelli