Tempo variabile
di Jenny Offill
NN editore, marzo 2020
Traduzione di Gioia Guerzoni
pp. 167
€ 16 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
€ 7,99 (ebook)
Chiudo quest’ultimo lavoro di Jenny Offill, scrittrice statunitense che seguo fin dal primo romanzo pubblicato in Italia dall’editore NN, e ancora una volta ci vuole più di qualche minuto per mettere in ordine i pensieri e gli appunti, scavare oltre la superficie della storia ed estraniarsi il tanto che basta per costruire un pensiero critico coerente e il più possibile obiettivo. Ho un legame affettivo con questa scrittrice e la casa editrice italiana che la pubblica. È stato l’ultimo libro ricevuto prima del blocco delle attività. Fa effetto scriverlo, immagino farà effetto rileggere queste righe tra qualche anno, quando questa clausura forzata sarà ricordo.
Dicevamo, Offill: è tornata in Italia nella puntualissima traduzione di Gioia Guerzoni e ancora una volta questa scrittrice mi incanta su più livelli per la capacità di raccontare con ironia sottile le imperfezioni della vita, delle relazioni, dei sentimenti. La vita appunto, straordinariamente ordinaria.
La prima cosa di Offill che mi colpisce è sempre la scrittura, la costruzione per frammenti: brani brevissimi, legati fra loro certo, ma sempre frammenti, a costruire una narrazione sperimentale in cui forte si avverte l’influenza della short story, il desiderio di una scrittura immediata a dare l’idea di qualcosa in divenire sulla pagina nel momento esatto in cui la si legge, uno scorrere di pensieri e parole illuminati da squarci, folgorazioni. Ovviamente non c’è nulla di casuale o immediato in senso stretto, è scrittura limata e – immaginiamo – faticosamente resa nella traduzione italiana. I romanzi di Offill rompono con le strutture tradizionali, sovvertono le regole e credo generino pareri contrastanti, tra chi odia questo tipo di impianto narrativo e scrittura e chi, come la sottoscritta, ne resta completamente incantato. Dalla short story mutuano anche quel desiderio di raccontare il particolare, il frammento, lasciando ampio spazio al non detto, quella parte sommersa dell’iceberg esemplificata da Hemingway; gli spazi bianchi, che nei romanzi di Offill si fanno chiaramente visibili sulla pagina, i lampi fugaci con cui illumina la narrazione di particolari importanti, le domande che restano senza risposta.
Dei tre pubblicati finora, questo è in un certo senso il romanzo di Offill di più ampio respiro: al cuore della narrazione c’è, sempre, la riflessione su rapporti, relazioni, identità, ma le urgenze del mondo entrano con più forza nella storia, la società e la politica non sono semplice sfondo a connotare luogo e tempo della narrazione ma altrettanto determinanti nello sviluppo della storia, nella costruzione del personaggio. Restano alcuni elementi tipici della scrittura di Offill, tra cui i contorni sfumati dei luoghi, della città – riconosciamo New York perché siamo abituati a farlo e da qualche elemento indicato quasi in maniera casuale – , pochi essenziali parametri a indicare il tempo in cui si muovono i protagonisti. Ecco, i protagonisti, mi sono chiesta a un certo punto a quale gruppo etnico appartenessero: la nostra arroganza ci porta sempre a considerare un personaggio come bianco, presumibilmente eterosessuale, quando non diversamente indicato; in questo caso intuiamo che Lizzie, la protagonista del racconto, e la sua famiglia vivono in un quartiere multietnico, hanno qualche problema economico, la famiglia del marito, Ben, è probabilmente di origine ebraica ed entrambi sono preoccupati per le ripercussioni che potrebbe avere anche su di loro la nuova politica presidenziale.
«Dici che dobbiamo prendere una pistola?» chiede Ben. Ma non sarebbe mica una novità, in America. Se spari a meno di tre persone non fai nemmeno notizia. Voglio dire, non è forse l’ultimo dei diritti che ci toglierebbero? (p. 92)
Politica e società entrano nel quotidiano, rispettando lo stile frammentario della narrazione, i lampi fugaci sul mondo contemporaneo filtrato dalla sensibilità con cui Lizzie registra ogni cosa. Una donna generosa e attenta, bibliotecaria in un campus universitario e custode delle storie che ogni giorno ha imparato ad ascoltare e conoscere, tra rivalità, frustrazioni, studenti in crisi, uomini e donne con problemi di dipendenza, solitudini, nevrosi.
Al mattino l’assistente universitario passa a salutarmi. Sembra pallido. Spero che non si sia rimesso a vendere il sangue. Mi racconta che ieri ha trovato la sua aula chiusa e ha dovuto aspettare un’ora in corridoio prima che qualcuno venisse ad aprirgli, ma ormai tutti i suoi studenti se n’erano andati. Però dice che ora gestisce meglio situazioni del genere. All’inizio era snervante lavorare in un posto dove nessuno si ricorda il tuo nome, dove devi chiamare la sicurezza per entrare nella tua stessa aula, ma più la vita quotidiana diventa frammentaria e sconcertante, meno lo agita, conclude. (p. 40)
Quando la sua amica Sylvia, esperta di cambiamenti climatici, le affida il ruolo di assistente nella gestione delle numerose email che ogni giorno arrivano da cittadini sempre più preoccupati della questione ambientale, Lizzie accetta quasi immediatamente, un po’ per il bisogno di soldi e soprattutto per assecondare quella personale tendenza all’ascolto.
Un po’ sconclusionata, piena di dubbi e incertezze, non proprio realizzata dal punto di vista professionale – anche se qui si aprirebbe la parentesi su che cosa sia, in fondo, il successo, tanto professionale quanto personale – è una donna che tenta di barcamenarsi tra il lavoro e una famiglia altrettanto sconclusionata, ingombrante e problematica. Si preoccupata di fronte alle previsioni catastrofiche sulla fine del mondo con le sue scarse conoscenze di tecniche di sopravvivenza e i problemi di un matrimonio un po’ in crisi, fatto di momenti di complicità che si alternano a vuoti, silenzi e tensioni, acuminati dai bisogni di un fratello con problemi di dipendenza e appena diventato padre, e un figlio che ha momenti di maturità spiazzanti
La maternità, che Offill racconta sempre spogliata di quell’irreale perfezione con cui viene troppo spesso confezionata e in generale l’essere genitori, con il carico di mancanze, preoccupazioni, sensi di colpa che in ogni caso comporta:
Nel fine settimana in cui avevo svezzato Eli ero andata in auto a trovare una vecchia amica, una delle poche sposate senza figli. […] avevo cercato di comportarmi come un essere umano, non come qualcuno che è in fuga dal figlio. (p. 84)
Forse è a Ben che il ruolo di genitore, di padre, riesce “meglio” che agli altri: non fugge per un weekend dal suo ruolo per ritrovare sé stesso, non ha incubi costanti all’idea di commettere uno sbaglio fatale, non si lascia scappare frasi spiazzanti di fronte al figlio. Forse è un uomo più risolto, più “stabile” – Ma nessuno è stabile, vorrei dirle. Stabile? (p. 55) – o forse, semplicemente, non lascia trapelare i propri dubbi, le paure e le incertezze che Lizzie non ha timore di mostrare.
L’umorismo nero attraversa le pagine e Offill regala al lettore lampi di ironia pungente, tra battute e dialoghi surreali, la paura – per le sorti del mondo, per il proprio privato – si intreccia però sempre alla resistenza e a una generale tendenza all’ottimismo, perché si, è tutto piuttosto complicato, ma in qualche modo ce la caveremo.
È il ritratto ancora una volta molto intimo di una donna che fa i conti con le proprie incertezze e mancanze, con un quotidiano imperfetto che si compone però di piccole felicità semplici e una generale tendenza all’ottimismo, nonostante tutto. È un’esistenza ordinaria, una felicità che forse non farà girare la testa – per parafrasare la stessa Offill di Sembrava una felicità – ma proprio per questo verosimile. Ho definito “in crisi” il matrimonio fra Lizzie e Ben: ebbene, forse non è del tutto appropriato. È un matrimonio che dura già da qualche anno, sono due persone con sensibilità e caratteri diversi circondati da un mondo che rischia di implodere e una famiglia ingombrante; dal desiderio di essere amati, totalmente e come il primo giorno; dalla paura per una società che ha trovato nuove ragioni di odio e sospetto. È un matrimonio, appunto.
E la felicità è fatta di tante microfelicità, che dobbiamo imparare a riconoscere.
Di Debora Lambruschini
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