Per la letteratura di Elio Vittorini nutro da sempre un sentimento speciale. I motivi certamente sono tanti. Per citare solo i primi tre: la musicalità, la visione, l'impegno militante.
Ma ce n'è un quarto che più degli altri mi lega a lui: mi sembra che tra gli scrittori siciliani sia stato quello capace di dare più intensamente espressione e significato all'esperienza dell'essere isolani. Non è il solo, ovviamente. Maestro insuperato accanto a lui è Gesualdo Bufalino che dell'essere siciliani ha fatto l'oggetto di una vera e propria riflessione teorico-sentimentale in libri straordinari come Cento Sicilie (scritto con Nunzio Zago) e La luce e il lutto.
Ma ce n'è un quarto che più degli altri mi lega a lui: mi sembra che tra gli scrittori siciliani sia stato quello capace di dare più intensamente espressione e significato all'esperienza dell'essere isolani. Non è il solo, ovviamente. Maestro insuperato accanto a lui è Gesualdo Bufalino che dell'essere siciliani ha fatto l'oggetto di una vera e propria riflessione teorico-sentimentale in libri straordinari come Cento Sicilie (scritto con Nunzio Zago) e La luce e il lutto.
Tornando a Elio Vittorini...
Conversazione in Sicilia è il primo libro che ho recensito nell'agosto 2009 su CriticaLetteraria, folgorata dalla lettura di un romanzo che racchiude insieme una rappresentazione così magica della mia isola e un messaggio così dirompente sulla libertà e sulla lotta del "genere umano perduto" nell'indifferenza. Ma c'era di più: su un piano emotivo e personale, la circolarità dell'esperienza di Silvestro, che torna dalla madre nella sua Sicilia in un viaggio di tre giorni e tre notti tra fichidindia, Zolfo, Macbeth e le montagne, è stata una chiave per comprendere realmente cosa succede quando si abbandona la Sicilia e poi vi si ritorna negli anni. Vittorini ha dato voce a quello che si prova con i sensi e con il cuore quando si ritorna a casa, quando sei il te stesso presente e nel contempo il te stesso remoto. Questa è la ragione per cui gli sono legata: il suo libro è per me l'espressione più alta della nostalgia per la Sicilia che è una casa come tante altre, è vero, ma è differente dalle altre per la sua insularità del cuore, per quello che Bufalino chiamava "senso di essere diversi".
Mesi fa su un banchetto di libri usati mi sono imbattuta nell'edizione Einaudi 1969 de Le città del mondo, un romanzo che l'autore ha scritto nel corso degli anni Cinquanta pubblicandolo per frammenti su riviste dal 1952 al 1959 e poi lasciandolo incompiuto.
L'edizione Einaudi racconta questo travaglio letterario riportando i primi quaranta capitoli del libro, che esistono in una stesura a macchina definitiva, dei capitoli non numerati scritti a macchina con correzioni autografe o su pagine manoscritte, e poi una serie di frammenti vari.
Un'opera laboratorio che nel 1953 venne presentata così sulla rivista Galleria di arti e lettere di Torino: "Con questo romanzo [...] l'autore di Uomini e no ritorna alla sua Sicilia, ma ad una Sicilia diversa da quella di Conversazione, una Sicilia in cui i paesi e le città, per il continuo spostarsi dei personaggi, che sono pastori e contadini, venditori ambulanti e camionisti, zolfatari e campieri, sono come vie piazze angoli di una medesima città..."
Il libro ha quindi un'anima nomade: sulla mappa di una Sicilia senza tempo viaggiano personaggi che vagabondano tra i borghi, le valli, i campi, le strade.
Ci sono un padre e un figlio pastori di pecore che si muovono per vendere i propri formaggi, cercando la città perfetta. Mentre loro si spostano, un altro padre, poeta di villaggio e amante del mito, porta il figlio chissà dove per consegnarlo a uno strano destino. C'è una coppia in viaggio di nozze che fugge nottetempo da un posto a un altro.
Sempre di notte, al chiaro di luna, una ragazza giovane, scappata dal chiuso della propria casa, attraversa i campi finché non incontra un'anziana meretrice che l'accoglie sul suo carro. Accanto a loro, sullo sfondo, tanti personaggi della Sicilia che sembrano includere l'umanità tutta: le donne alle finestre che infornano il pane nei giorni di festa, i padroni delle terre, gli uomini nei circoli, le lavandaie.
Mesi fa su un banchetto di libri usati mi sono imbattuta nell'edizione Einaudi 1969 de Le città del mondo, un romanzo che l'autore ha scritto nel corso degli anni Cinquanta pubblicandolo per frammenti su riviste dal 1952 al 1959 e poi lasciandolo incompiuto.
L'edizione Einaudi racconta questo travaglio letterario riportando i primi quaranta capitoli del libro, che esistono in una stesura a macchina definitiva, dei capitoli non numerati scritti a macchina con correzioni autografe o su pagine manoscritte, e poi una serie di frammenti vari.
Un'opera laboratorio che nel 1953 venne presentata così sulla rivista Galleria di arti e lettere di Torino: "Con questo romanzo [...] l'autore di Uomini e no ritorna alla sua Sicilia, ma ad una Sicilia diversa da quella di Conversazione, una Sicilia in cui i paesi e le città, per il continuo spostarsi dei personaggi, che sono pastori e contadini, venditori ambulanti e camionisti, zolfatari e campieri, sono come vie piazze angoli di una medesima città..."
Il libro ha quindi un'anima nomade: sulla mappa di una Sicilia senza tempo viaggiano personaggi che vagabondano tra i borghi, le valli, i campi, le strade.
Ci sono un padre e un figlio pastori di pecore che si muovono per vendere i propri formaggi, cercando la città perfetta. Mentre loro si spostano, un altro padre, poeta di villaggio e amante del mito, porta il figlio chissà dove per consegnarlo a uno strano destino. C'è una coppia in viaggio di nozze che fugge nottetempo da un posto a un altro.
Sempre di notte, al chiaro di luna, una ragazza giovane, scappata dal chiuso della propria casa, attraversa i campi finché non incontra un'anziana meretrice che l'accoglie sul suo carro. Accanto a loro, sullo sfondo, tanti personaggi della Sicilia che sembrano includere l'umanità tutta: le donne alle finestre che infornano il pane nei giorni di festa, i padroni delle terre, gli uomini nei circoli, le lavandaie.
La Sicilia di questo libro è raccontata in una dimensione geografica e storica assoluta: non sappiamo con certezza gli anni in cui si svolge la vicenda, però vediamo sullo sfondo che i contadini sono in rivolta, escono all'alba abbandonando i propri campi e non si presentano la mattina dopo.
Si sono alzati gli stendardi e le trombe, i padroni delle terre si sentono minacciati e l'antico parlamento contadino torna a riunirsi dopo anni. C'è anche la polizia che gira tra le strade, con rombi di motociclette. Siamo nella Sicilia dei Borboni o in quella fascista tra le due guerre? Forse ha poca importanza. Vittorini racconta un'isola inquieta e in bilico - come d'altronde è per sua natura, posta tra tre mari - che aspetta di capire il proprio destino.
"Le città del mondo" a cui allude il titolo sono le tante che si celano in questa mappa letteraria dell'isola.
Lo scrittore racconta la terra dei letti di fiumara, dei promontori pieni di colore, dell'Etna fumante e dei recinti delle campagne interne (Vittorini era uno scrittore dell'entroterra, più che delle coste), ma insieme accenna anche a luoghi che stanno alla stessa latitudine ideale in Africa, Andalusia, Malta, Grecia, dove i colori ricordano i nostri.
Ma ci sono anche le città mitiche di ogni tempo che i pastori inseguono cercando la città perfetta: Betlemme, Babilionia, Ninive, Samarcanda.
Le città del mondo abbaglia il lettore con la bellezza delle descrizioni e il loro lirismo, ma nel complesso il romanzo non raggiunge la grandezza di sogni e simboli di Conversazione in Sicilia, dove il viaggio a ritroso si eleva a messaggio di universale potenza.
Tuttavia c'è un sentire più profondo che lega i due libri: nella Sicilia "fertile e desolata, isola felice e terra di fame" Vittorini disegna le contraddizioni di tutti i popoli del mondo.
Ed è qui che tornano in mente le ultime pagine di Conversazione in Sicilia dove si legge che "la Sicilia è solo per avventura la Sicilia, solo perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Venezuela".
Del resto a Elio Vittorini piace immaginare che tutti i manoscritti vengano trovati in una bottiglia.
Edizione di riferimento: Elio Vittorini, Le città del mondo, Einaudi, 1969
***
Uno degli anni in cui noi uomini di oggi si era ragazzi o bambini, sul tardi d'un pomeriggio di marzo, vi fu in Sicilia un pastore che entrò col figlio e una cinquantina di pecore, più un cane e un asino, nel territorio della città di Scicli. Questa sorge all'incrocio di tre valloni, con case da ogni parte su per i dirupi, una grande piazza in basso a cavallo del letto d'una fiumara, e antichi fabbricati ecclesiastici che coronano in più punti, come acropoli barocche, il semicerchio delle altitudini. È a pochi chilometri da Modica, nell'estremità sud-orientale dell'isola; e chi arriva dall'interno se la trova d'un tratto ai piedi, festosa di tetti ammucchiati, di gazze ladre e di scampanii; mentre chi vi arriva venendo dal non lontano litorale la scorge che si annida con diecimila finestre nere in seno a tutta l'altezza della montagna, tra fili serpeggianti di fumo e qua e là il bagliore d'un vetro aperto o chiuso, di colpo, contro il sole.
Molti altri scovò il plenilunio, qua e là per la Sicilia, che pure parevano in fuga: uomini a cavallo, e uomini che strisciavano via sulle ginocchia, uomini che camminavano su tegole di tetti in punta di piedi, uomini che si lasciavano scivolare giù dal muro della bianca cinta d'un aranceto, uomini in mezzo a una landa o su una spiaggia che subito affrettavano in passo abbandonandosi sugli occhi la visiera, uomini che spiegavano lo scialle fin'allora portato appeso al braccio o vi si incappucciavano, uomini in carretto che portavano il mulo a sentire da che parte venisse un abbaiare di cani...
- Ma il mondo resta pieno, - soggiunse, - di città famose. Con una mano sotto la nuca e la faccia per aria, egli portò lo sguardo dalle balze dei lumi fino al cielo e alle prime stelle più in alto, e disse:
- Adelaide.
- Come? - il bambino esclamò.
Il padre portò di nuovo lo sguardo dai lumi al cielo e alle stelle più in alto, e disse:
- Samarcanda.
Quindi disse:
- Tucuman.
E quindi disse:
- Filadelfia.
Prendeva tempo tra un nome e l'altro. Pronunciatone uno sembrava aspettare che un altro si formasse. Come una goccia che deve formarsi per poter cadere.
Disse Manilla.
Disse Elsinore.
Le meretrici sono nomadi in Sicilia, almeno per quanto riguarda le città contadine, e girano di luogo in luogo, da uno con fontane e trentacinque chiese, a uno con appena un pugno di tetti, capitandovi come vi capitano gli arrotini, e come i materassai, come gli impagliatori di seggiole, talune in calesse, in motofurgoncino o a dorso di mulo, ma la maggior parte a piedi, col fagotto dei loro averi appeso a un bastone che portano sulla spalla e le scarpette dagli alti tacchi appese allo stesso bastone, oppure su un camion carico di terraglie che le ha raccolte a una curva in salita e arriva strombettando in un modo speciale, festoso e ironico a un tempo, perché ha, per l'appunto, una donna pubblica a bordo.
A cura di Claudia Consoli
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