Il secolo dei giganti.
Il fermaglio di perla
di Antonio Forcellino
Harper Collins, 2020
pp. 540
€ 12,90 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
Per Leonardo Da Vinci furono “l’avventura” e un “cavallo di bronzo”, monumento equestre impossibile da portare a termine come celebrazione, oltre che di Francesco Sforza, anche delle proprie competenze tecniche e scientifiche. Per Michelangelo Buonarroti furono invece “l’ardore” e un “colosso di marmo”, da sfidare a più riprese e fino all’ultimo slancio vitale per cavarne forme ora pacificate ora inquiete. Adesso, giunto al terzo capitolo della sua trilogia sui grandi del Rinascimento da poco pubblicato da Harper Collins, Antonio Forcellino ha ben pensato di associare la figura Raffaello Sanzio al più soave dei concetti – “la grazia” – e a un oggetto simbolico – un “fermaglio di perla” – che ne restituiscono altrettanto bene il senso della predestinazione. Perché l’urbinate, pittore della dolcezza e della misura, fu non solo perfetto come il “frutto” di ogni ostrica violata dall’ingresso del granello di sabbia, ma il suo agire, inteso nel complesso, fu in grado di tenere insieme, proprio come avrebbe fatto una spilla, le istanze e gli umori di un’epoca auspicabilmente nuova: un'epoca in cui non lottare più per l’emancipazione dell’arte dalla dimensione meramente artigianale della bottega e in cui fare in modo che l’artista in sé fosse il punto di riferimento pratico e intellettuale per una (poi fortunata) scuola di discepoli e per una corte di amici e sodali altrettanto illuminati (Agostino Chigi in primis). Un idillio meraviglioso a cui, come è noto, pose fine la morte, che lo colse nel 1520 nel fiore degli anni e che fece coincidere la sua scomparsa all’alba di un XVI secolo gravido di tormenti e disgrazie con la cesura fatale tra il desiderio di un rinnovamento e la fine di quelle stesse illusioni.
Il fermaglio di perla
di Antonio Forcellino
Harper Collins, 2020
pp. 540
€ 12,90 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
Per Leonardo Da Vinci furono “l’avventura” e un “cavallo di bronzo”, monumento equestre impossibile da portare a termine come celebrazione, oltre che di Francesco Sforza, anche delle proprie competenze tecniche e scientifiche. Per Michelangelo Buonarroti furono invece “l’ardore” e un “colosso di marmo”, da sfidare a più riprese e fino all’ultimo slancio vitale per cavarne forme ora pacificate ora inquiete. Adesso, giunto al terzo capitolo della sua trilogia sui grandi del Rinascimento da poco pubblicato da Harper Collins, Antonio Forcellino ha ben pensato di associare la figura Raffaello Sanzio al più soave dei concetti – “la grazia” – e a un oggetto simbolico – un “fermaglio di perla” – che ne restituiscono altrettanto bene il senso della predestinazione. Perché l’urbinate, pittore della dolcezza e della misura, fu non solo perfetto come il “frutto” di ogni ostrica violata dall’ingresso del granello di sabbia, ma il suo agire, inteso nel complesso, fu in grado di tenere insieme, proprio come avrebbe fatto una spilla, le istanze e gli umori di un’epoca auspicabilmente nuova: un'epoca in cui non lottare più per l’emancipazione dell’arte dalla dimensione meramente artigianale della bottega e in cui fare in modo che l’artista in sé fosse il punto di riferimento pratico e intellettuale per una (poi fortunata) scuola di discepoli e per una corte di amici e sodali altrettanto illuminati (Agostino Chigi in primis). Un idillio meraviglioso a cui, come è noto, pose fine la morte, che lo colse nel 1520 nel fiore degli anni e che fece coincidere la sua scomparsa all’alba di un XVI secolo gravido di tormenti e disgrazie con la cesura fatale tra il desiderio di un rinnovamento e la fine di quelle stesse illusioni.
A dispetto di quanto il suo titolo farebbe pensare, al centro dell’ultimo romanzo dell’importante studioso e restauratore italiano non c’è dunque nessun gioiello. Certo: è noto come Raffaello amasse ornare così il capo delle sue bellissime modelle e amanti, ma in questo caso il riferimento al manufatto vuole alludere esclusivamente a quello che fu il ruolo del pittore prima che gli equilibri europei e mediorientali precipitassero senza misericordia in un abisso di violenza e degrado mai sperimentate prima, vero e proprio fallimento di quel sogno razionale di rinascita che si stava mettendo in essere a partire dalla stessa Roma. Ricorrendo alla consueta scansione temporale data dall’avvicendarsi dei pontefici sul soglio di Pietro – Leone X (1513-1521), Adriano VI (1522-1523), Clemente VII (1523-1534) e Paolo III (1534-1549) – Antonio Forcellino racconta difatti la fine dei sogni di gloria di una città eterna minata dalle lotte familiari per il suo dominio, stretta tra la morsa dell'imperatore Carlo V e il re di Francia Francesco I e non di meno insidiata dalle istanze riformatrici luterane, il cui climax più clamoroso coincise con il famoso “sacco” del 1527, evento di portata epocale destinato a sconvolgere per sempre le menti e gli istinti degli uomini; una saga dell’orrore tristemente conservata nelle cronache del tempo, in quello che ai testimoni apparve come un contrappasso per i decenni di ingiustizie e angherie di una chiesa cattolica animata solo da smanie di conquista e deliri di onnipotenza. Fine della Roma "alfa e omega del mondo", dunque, e decadenza del primato di un Occidente oggetto della minaccia musulmana incarnata dalla figura di Solimano: fine, da una parte, di un papato e di uno Stato della chiesa solidi e forti e inizio, dall’altra, di quelli che sarebbero divenuti gli stati moderni veri e propri; uno scenario politico e territoriale, quest’ultimo, di fronte al quale le casate italiane più in vista – i Medici, su tutte – avrebbero finito con l’apparire per ciò realmente erano, ovvero le principali traditrici degli ideali rinascimentali più autentici, dilaniate da invidie, delitti, tradimenti, ambizioni senza limite.
Parrebbe quasi esagerato, anche alla luce dell’uscita di scena del pittore ad appena un quinto dell’intero romanzo, attribuirgli tanto valore al punto da proporre il volume come quello dedicato alla sua gloria. Eppure le cose stanno proprio così, perché a dispetto della precoce dipartita terrena del “principe” la sua presenza riesce a farsi sentire per antitesi lungo le successive quattrocento pagine, che per quadri brevi e brevissimi restituiscono l'avvento di un orrore incalzante, senza tregua, che semina morte senza che i sopravvissuti prendano mai vera consapevolezza delle proprie responsabilità. Il ricordo del suo esempio, difatti, resta vivo nel lettore, che di volta in volta è chiamato a confrontarsi con il buio diffuso di una fede malintesa e fanatica e di una ragione liberata dalla logica e dalla giustizia. Pertanto, se è pur vero che Il fermaglio di perla sembra il perfetto seguito della vicenda michelangiolesca (dal momento che la longevità e le alterne vicende del Buonarroti richiedono, per verità storica, di seguirne e anche esaltarne i tormenti civili e le angosce spirituali), è altrettanto vero che il profilo del pittore gentile – che fu maestro generoso e amato sia dai committenti che dagli assistenti, sempre trattati alla stregua di colleghi – persiste come una scia luminosa, quasi a sottolineare il rimpianto per il sogno sfumato di una nuova età dell’oro e il rimorso per gli eccessi di violenza e ottusità che costrinsero uomini e donne di ogni ceto a vivere nell’incubo. Proprio alle figure femminili, e come già accadeva nei precedenti volumi, Forcellino dedica non a caso molte pagine importanti, delineando psicologie complesse e temperamenti invidiabili, tra cui spicca soprattutto quello eccellente di Vittoria Colonna: sempre consapevoli delle loro qualità e del loro ruolo strategico all’interno di uno scacchiere politico basato su alleanze matrimoniali e regole dinastiche, e non di rado vere e proprie reggenti dei rispettivi domini, esse riescono a rivelare l’ambizione maschile nella sua cattiva luce fatta di boria, esagerazione e delirio di onnipotenza, in cui il senso dell’onore e dell’orgoglio nascondono nient’altro che egoismo e crudeltà; uomini per i quali anche l'arte non viene quasi mai concepita come slegata da interessi personalistici e celebrativi (una vanagloria di cui, peraltro, sa approfittarsi a proprio vantaggio l'emergente e mirabile Tiziano Vecellio).
Giunti al capitolo finale di una trilogia così impegnativa – non solo per la complessità della materia trattata ma anche per la mole effettiva di pagine (oltre 1600 in tutto) – non si può che confermare l’impressione avuta con le uscite precedenti: i libri di Antonio Forcellino sono un ottimo anello di congiunzione tra l’aridità che non poche volte caratterizza la prosa saggistica e, viceversa, l’eccesso di innesti e di infiorescenze fantasiose che altrettanto spesso infestano le trasposizioni più esplicitamente “pop” della storia e della storia dell’arte. Non sono, a rigore, volumi da affrontare nell’aspettativa di un divertissement in chiave rinascimentale: sono veri e propri tomi in cui si percepisce il lavoro autoriale di raffinamento di un’intera vita passata a diretto contatto con i grandi del passato, amati e compresi nello studio delle biografie, delle opere e dei rispettivi contesti. Il secolo dei giganti è senza dubbio una trilogia capace di fare la gioia degli appassionati dell’era moderna, ma adesso, intesa nel suo complesso, si presta benissimo – forse più di certe fiction a cui pure fanno pensare la costruzione per squarci narrativi e la cura delle psicologie dei personaggi – come supporto didattico per gli insegnanti delle scuole superiori, che sempre faticano a trasmettere agli studenti l’idea di una storia come continuum e come relazione tra le parti, ma specialmente come scenario in cui tutti, in fin dei conti, sono protagonisti e nessuno è comprimario.
Cecilia Mariani
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