Cent'anni di solitudine
di Gabriel Garcίа Márquez
Oscar Mondadori, 2017
Prima edizione: 1967
Traduzione di Enrico Cicogna
Prima edizione: 1967
Traduzione di Enrico Cicogna
pp. 378
€ 14 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio (p. 7).
Se c'è un autore in grado di rapire il lettore fin dall'incipit, quello è senza ombra di dubbio Gabriel Garcίа Márquez.
E infatti anche io non sono rimasta immune alla magia di Gabo (come veniva amichevolmente chiamato questo scrittore vincitore del Premio Nobel per la Letteratura nel 1982) e delle prime trascinanti parole di quello che è forse il suo romanzo più celebre, Cent'anni di solitudine (Oscar Mondadori, 2017; prima edizione italiana: 1968).
Ma mi piacerebbe descrivere questa storia partendo dalla fine.
Maestoso. È stata questa la parola che mi è venuta in mente quando ho letto l'ultima pagina dell'epopea della famiglia Buendía e ho chiuso il libro. Sì, perché la sensazione di meraviglia e di magia tanto cara all'autore (considerato tra i maggiori esponenti della corrente letteraria del "Realismo magico") è presente in ogni capitolo, in ogni parola, in ogni personaggio di questa storia, nella quale Gabo costruisce un mondo fantastico (nel senso più letterale del termine) che pare costituito da tessere di un mosaico sensazionale che solo lui può cesellare e poi comporre per dar vita a un quadro incredibile.
Definire però Cent'anni di solitudine una mera saga familiare sarebbe assai riduttivo, perché la storia degli innumerevoli José Arcadio e Aureliano Buendía è in verità un'epopea immaginifica e grandiosa alla quale noi lettori non possiamo far altro che assistere in veste di spettatori increduli e strabiliati.
La storia, che si dipana con ricercata lentezza, inizia con la fondazione della città di Macondo da parte di José Arcadio:
Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito (p. 7).Alternando descrizioni dal lessico raffinato a dialoghi molto colloquiali, García Márquez conduce il lettore al centro delle vicende dei Buendía, partendo dai capostipiti José Arcadio e Ursula, per poi continuare con una moltitudine di Aureliano e altri José Arcadio: un universo di personaggi in perpetua ricerca di quella solitudine protagonista del titolo dell'opera o che, più verosimilmente, si abbandonano a essa come l'unica certezza nelle loro vite.
Dall'inizio della narrazione fino alla sua fine si succedono nascite, matrimoni, amori più o meno nefasti tra i vari componenti della famiglia (la cui epopea proseguirà per ben sette generazioni), i quali non possono far altro che vivere e rimanere in attesa del dispiegarsi di un'antica profezia: la comparsa di un figlio con la coda di porco.
Le vicende si snodano in maniera piuttosto ciclica, in un riproporsi di situazioni e oggetti, personaggi dati per scomparsi, ritorni di uomini e donne apparentemente morti, persino i nomi della maggior parte dei protagonisti sono uguali (motivo per cui consiglio di tenere sempre con sé un albero genealogico della famiglia), allo stesso modo dei loro caratteri e delle loro attitudini, ma incredibilmente il lettore riesce sempre a distinguerli e a riconoscerli nelle loro più vive peculiarità.
E viene davvero da gridare al miracolo nel constatare come Garcίа Márquez non si scordi di nessun dettaglio nel corso della narrazione, come tutto scorra inevitabilmente ma ragionevolmente verso un finale davvero grandioso, in attesa di arrivare al quale i segni della magia divengono sempre più tangibili e incredibilmente realistici (su tutti l'apparizione di componenti ormai defunti della famiglia).
Chiunque provi a cercare la città di Macondo sul mappamondo è destinato a non trovarla, perché questa località è scaturita dalla fervida immaginazione dell'autore, seppur pare che debba geograficamente essere collocata in Colombia in un tempo non ben identificato.
Il tutto contribuisce inevitabilmente e ulteriormente a ricoprire la storia di una patina mitologica.
Un altro espediente sapientemente utilizzato dallo scrittore è l'anticipazione di un determinato evento: alcuni fatti (spesso anche autobiografici, come la scoperta del ghiaccio di cui all'incipit) infatti, anche piuttosto importanti per la trama, vengono preannunciati molto prima che si gettino le basi per la loro attuazione, ma ciò non diminuisce la suspense ma, al contrario, spinge a proseguire nella lettura per scoprire come si arriverà a quella vicenda.
«Gli dica» sorrise il colonnello, «che non si muore quando si deve, ma quando si può» (p. 223).
Non bisogna commettere l'errore, però, di pensare che Cent'anni di solitudine (dal quale verrà presto tratta una serie tv per Netflix) costituisca semplicemente una sorta di favola sudamericana, poiché il libro è anche e sopratutto un'interpretazione metaforica della storia della Colombia: dalla sua fondazione, infatti, il lettore assiste anche alle polemiche del XIX secolo causate dall'approvazione e dall'opposizione nei confronti della riforma politica liberale di uno stile di vita coloniale, l'arrivo della ferrovia, del cinema e dell'automobile, la Guerra dei Mille giorni (1899-1902), il predominio economico della United Fruit Company (che nel libro è denominata "Compagnia bananiera") e il soffocamento del sangue dello sciopero della classe lavoratrice.
Ci sarebbe ancora davvero tanto da scrivere su questo autentico capolavoro, ma ciò toglierebbe l'autentico piacere di scoprire Macondo e i suoi magici abitanti.
Due parole ancora, però, devo spenderle per la conclusione di questo libro.
Le ultime due pagine di questo libro, infatti, le ho assaporate, centellinate e poi lette con le lacrime agli occhi, conscia di essere di fronte a uno dei finali più belli della letteratura mondiale, a uno di quei prodigi che solo i veri autori, gli scrittori più geniali sono riusciti a compiere e dei quali, purtroppo, sempre più di rado riesce a rinvenirsi traccia.
L'ultimo gesto d'amore che posso compiere nei confronti della famiglia Buendía è senza dubbio quello di consigliare vivamente non solo la lettura di Cent'anni di solitudine, ma anche l'immersione totale nelle sue atmosfere: Gabo chiede ai suoi lettori di abbandonare ogni certezza, ogni vincolo al proprio mondo per adottare il punto di vista del realismo magico.
Se dopo oltre cinquant'anni le sue parole continuano a incantarci e a farci sognare, possiamo ben dire che quella meraviglia che accompagna la lettura delle sue opere non è andata persa, ma anzi seguita a parlarci e possiamo solo augurarci che lo faccia anche nei confronti delle generazioni future.
Ilaria Pocaforza
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