Frieda
di Christophe Palomar
Ponte alle Grazie, 2020
pp. 320
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
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Joachim Von Tilly, protagonista del libro d’esordio di Christophe Palomar, è l’erede di una dinastia di conti tedeschi, magnanti dell’acciaio. Il suo personaggio, inizialmente svogliato, gracile e piuttosto grigio, cresce parallelamente al dispiegarsi della trama, arricchendosi di colori e di luce, di quella inevitabile fiammella di vita, scatenata dall’incontro con l’amore. Frieda Von Richthofen è la donna che incarna l’iniziale struggimento di giovanil passione, divenendo ossessione, musa, e successivamente il definitivo amore di Von Tilly, durante lo scorrere degli anni del primo '900, nelle diverse tappe dell’erratica professione di Von Tilly, degli eventi che si muovono e scatenano sullo sfondo, passando dalle spiagge di Capri, ad una Vienna dalle tinte forti come i quadri di Egon Schiele, della Belle Èpoque, ma anche lo spettro della Spagnola, il sorgere del populismo, fino alle vie di Buenos Aires, concludendosi poi tra le macerie del Nazifascismo e le sue conseguenze sull'anima. Frieda è un romanzo caratterizzato dalla scrittura densa, artificiosa e musicale. Articolata in brevi ed incisivi capitoli, la trama segue il filone temporale della narrazione, lungo la quale sono innestate le vicende di una notevole schiera di personaggi.
Frieda, croce e delizia, donna esuberante ed indipendente, moglie, madre, amante. Von Tilly, un uomo che sembra vivere con evidente distacco il mondo, tratteggiato sempre da ricercate frasi linguistiche, che tuttavia manifestano una distanza notevole tra il percepito, analizzato dalla ragione, e l’effettiva percezione dei sensi. Il profumo della terra di Capri, non sembra sortir particolare effetto sul personaggio, ma l’amore, la descrizione di Frieda, nonché l’iniziazione all’ars amatoria, sembrano risvegliare ben altre riflessioni. Succede lo stesso nel campo del lavoro, dove si assiste ad una maturazione dell’uomo, ad un radicamento di autostima e sicurezza personale, che lo conducono ad audaci scelte professionali ed esistenziali.
L’autore, Christophe Palomar, nato in Alsazia (Francia) da padre italiano e madre spagnola, in questa intervista, ci racconta Frieda, il suo esordio letterario.
Frieda rappresenta il suo esordio narrativo, come è nato il suo desiderio di cimentarsi con questo mestiere?
CP: in realtà non volevo essere pubblicato perché non volevo che la narrativa diventasse una fonte di guadagno (un po’ per gli stessi motivi per cui non credo nel sesso a pagamento). Per molto tempo era tutto chiaro quindi: da un lato il mio mestiere di manager (forse dovremmo dire “maneggiatore” visto che la parola manager viene, dicono, dal veneziano) e dall’altro lettura e scrittura, che sono le due facce della stessa moneta. Poi quattro anni fa, sono stato “costretto” a pubblicare ma in maniera così confidenziale (un minuscolo editore, una distribuzione limitata a un solo punto vendita, niente interviste ecc.) che non c’era rischio che qualcuno si accorgesse di me. Poi, a sorpresa, le recensioni, i lettori, le ristampe e nel 2019, la chiamata di Ponte alle Grazie! Infine una nuova uscita in libreria qualche giorno prima del “blocco aereo”. Eh già, niente rischio di guadagno…
Quali sono i suoi modelli di riferimento narrativo?
CP: mi sento un viandante della lettura, un dilettante apolide. Evito le traduzioni, per cui leggo nelle mie lingue (spagnolo, francese e italiano) nonché in inglese. Per quanto riguarda tedesco e russo, mi affido per lo più alle grandi traduzioni di Adelphi ed Einaudi. Prediligo i mitteleuropei, i russi e i sudamericani, nonché i francesi dell’ottocento e del novecento. Nonché alcuni grandi contemporanei di cui si parla troppo poco qui, come ad esempio Manuel Chirbes, David Lodge oppure “l’italiano” Joseph Zoderer. La notorietà letteraria è una cosa davvero misteriosa che va e viene.
Qual è la genesi di “Frieda” e quanto tempo ha impiegato a scrivere il libro?
CP: “Frieda” nasce ai tempi dell’università come racconto da dieci cartelle scritto nell’ambito di un concorso letterario che premiava riccamente i primi tre classificati (per la cronaca arrivai quarto). Anni dopo ripresi quella storia lavorandoci per cinque anni fra un viaggio e l’altro, fino alla prima pubblicazione fine 2015 (avrò riscritto Frieda tre o quattro volte scoprendo che scrivere è riscrivere). Infine, l’ampia revisione operata l’anno scorso e che fa sì che si tratti di un nuovo romanzo.
CP: in realtà non volevo essere pubblicato perché non volevo che la narrativa diventasse una fonte di guadagno (un po’ per gli stessi motivi per cui non credo nel sesso a pagamento). Per molto tempo era tutto chiaro quindi: da un lato il mio mestiere di manager (forse dovremmo dire “maneggiatore” visto che la parola manager viene, dicono, dal veneziano) e dall’altro lettura e scrittura, che sono le due facce della stessa moneta. Poi quattro anni fa, sono stato “costretto” a pubblicare ma in maniera così confidenziale (un minuscolo editore, una distribuzione limitata a un solo punto vendita, niente interviste ecc.) che non c’era rischio che qualcuno si accorgesse di me. Poi, a sorpresa, le recensioni, i lettori, le ristampe e nel 2019, la chiamata di Ponte alle Grazie! Infine una nuova uscita in libreria qualche giorno prima del “blocco aereo”. Eh già, niente rischio di guadagno…
Quali sono i suoi modelli di riferimento narrativo?
CP: mi sento un viandante della lettura, un dilettante apolide. Evito le traduzioni, per cui leggo nelle mie lingue (spagnolo, francese e italiano) nonché in inglese. Per quanto riguarda tedesco e russo, mi affido per lo più alle grandi traduzioni di Adelphi ed Einaudi. Prediligo i mitteleuropei, i russi e i sudamericani, nonché i francesi dell’ottocento e del novecento. Nonché alcuni grandi contemporanei di cui si parla troppo poco qui, come ad esempio Manuel Chirbes, David Lodge oppure “l’italiano” Joseph Zoderer. La notorietà letteraria è una cosa davvero misteriosa che va e viene.
Qual è la genesi di “Frieda” e quanto tempo ha impiegato a scrivere il libro?
CP: “Frieda” nasce ai tempi dell’università come racconto da dieci cartelle scritto nell’ambito di un concorso letterario che premiava riccamente i primi tre classificati (per la cronaca arrivai quarto). Anni dopo ripresi quella storia lavorandoci per cinque anni fra un viaggio e l’altro, fino alla prima pubblicazione fine 2015 (avrò riscritto Frieda tre o quattro volte scoprendo che scrivere è riscrivere). Infine, l’ampia revisione operata l’anno scorso e che fa sì che si tratti di un nuovo romanzo.
Per creare il carattere di Von Tilly, ha preso spunto da altri personaggi del mondo della letteratura?
CP: non che io sappia, anche se Mann, Roth, Musil e Broch avranno avuto su di me un’influenza che mi piace sottostimare. La mia idea era quella di scrivere di un uomo senza qualità combattuto fra essere e avere, fra fuga e nostalgia. Volevo seguirlo dall’infanzia alla vecchiaia, stargli alle calcagna come un cameraman. Fra Storia e stati d’animo. Fra avvenimenti e odori di cibo. Invece dal primo viaggio a Capri in poi, è stato lui a guidarmi. Con le sue sensazioni, la sua lingua, i suoi occhi sul mondo. Ne è uscito un romanzo di formazione in presa diretta. L’opposto di un romanzo storico.
CP: non che io sappia, anche se Mann, Roth, Musil e Broch avranno avuto su di me un’influenza che mi piace sottostimare. La mia idea era quella di scrivere di un uomo senza qualità combattuto fra essere e avere, fra fuga e nostalgia. Volevo seguirlo dall’infanzia alla vecchiaia, stargli alle calcagna come un cameraman. Fra Storia e stati d’animo. Fra avvenimenti e odori di cibo. Invece dal primo viaggio a Capri in poi, è stato lui a guidarmi. Con le sue sensazioni, la sua lingua, i suoi occhi sul mondo. Ne è uscito un romanzo di formazione in presa diretta. L’opposto di un romanzo storico.
Chi è Frieda, la musa ispiratrice del suo libro?
CP: Frieda è un personaggio realmente esistito. Figlia del governatore della Lorena durante l’occupazione prussiana, cugina del Baron Rosso e musa di D.H. Lawrence, è una donna libera, di una modernità assoluta. Mentre il nostro Joachim cresce e vive circondato da ombre, da sagome inafferrabili, Frieda rappresenta per lui la prima e l’unica figura femminile davvero paritetica. Da lei impara a vivere, a desiderare, ad amare e soprattutto a sopravvivere al fiume della Storia e del tempo. “Sopravvivere, ecco tutto” dice Joachim alla fine del romanzo, una frase che deve interamente a Frieda.
CP: Frieda è un personaggio realmente esistito. Figlia del governatore della Lorena durante l’occupazione prussiana, cugina del Baron Rosso e musa di D.H. Lawrence, è una donna libera, di una modernità assoluta. Mentre il nostro Joachim cresce e vive circondato da ombre, da sagome inafferrabili, Frieda rappresenta per lui la prima e l’unica figura femminile davvero paritetica. Da lei impara a vivere, a desiderare, ad amare e soprattutto a sopravvivere al fiume della Storia e del tempo. “Sopravvivere, ecco tutto” dice Joachim alla fine del romanzo, una frase che deve interamente a Frieda.
C’è un libro che non hai mai letto e che si riprometti di fare da tempo?
CP: tanti, troppi. A cominciare dalla Bibbia.
Qualche nuovo progetto per il futuro?
CP: intanto tornare a pensare al presente, quello vero fatto di viaggi, incontri e scoperte; di odori e luci diverse da quelli dei fornelli di casa. Poi il prossimo romanzo, nato 10 anni fa e anche qui ripreso più volte. Credo sia pronto ormai.
CP: intanto tornare a pensare al presente, quello vero fatto di viaggi, incontri e scoperte; di odori e luci diverse da quelli dei fornelli di casa. Poi il prossimo romanzo, nato 10 anni fa e anche qui ripreso più volte. Credo sia pronto ormai.
Quali pensa siano le prospettive per la letteratura, in un periodo sempre più dominato dalla comunicazione digitale, e quali i rapporti con le altre forme d’intrattenimento culturale?
CP: non lo so. Come dice Woody Allen in “Ombre e Nebbia” credo: sono troppo incompetente per potermi sbagliare. Quello che so è che ci sono le storie, chi le racconta e chi le ascolta. E che le storie non finiranno mai. In fondo all’era tecnologica, forse rimarrà solo il teatro.
CP: non lo so. Come dice Woody Allen in “Ombre e Nebbia” credo: sono troppo incompetente per potermi sbagliare. Quello che so è che ci sono le storie, chi le racconta e chi le ascolta. E che le storie non finiranno mai. In fondo all’era tecnologica, forse rimarrà solo il teatro.
Introduzione e intervista a cura di Elena Arzani