Viaggiatori erranti e inconsueti sono “I Vagabondi” di Olga Tokarczuk




I Vagabondi
di Olga Tokarczuk
Bompiani, 2019

Traduzione di Barbara Delfino

pp. 384
€ 20,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)



Scrittrice polacca, classe 1962, Olga Tokarczuk ha vinto il Man Booker International Prize e ha ricevuto il Premio Nobel per la letteratura per l’anno 2018, con questa motivazione: «per un'immaginazione narrativa che, con passione enciclopedica, rappresenta l'attraversamento dei confini come forma di vita».

Romanzo corposo con quasi 400 pagine, I vagabondi è stato editato per l’Italia dalla casa editrice Bompiani lo scorso anno, mentre la pubblicazione in lingua originale Bieguni risale al 2007.

È un libro che parla essenzialmente del viaggio, nel quale poliedriche figure si snodano in assoluta libertà, ma è allo stesso tempo anche una sorta di diario moderno e originale. L’autrice passa da un’epoca ad un’altra, da un luogo all'altro, da dialoghi semi seri a massime sofisticate, da divulgazioni scientifiche a conversazioni futili e da argomentazioni su astronomia e geografia a tematiche sull'anatomia, non mancano nemmeno rimandi al mondo classico, a famosi romanzieri e a storie passate. Mappe e disegni di varie città sono poi state inseriti all'interno del testo. 
Non è un racconto lineare, ma un panta rei di appunti, riassunti, idee alla rinfusa, spontanee e indipendenti. Uno scorrere infinito di parole, di aneddoti, di descrizioni, di incontri in cui nulla è fermo e statico, ma tutto è in continuo movimento.
Errante diventa la lettura che si dipana per frammenti, ognuno dei quali assume percorsi anticonvenzionali in un’instancabile divagazione di episodi. I brani sono brevi, alcuni sono composti da sole poche righe, ma tutti i paragrafi hanno un titolo.
Se ne rimane affascinati e confusi, allora lo si lascia per qualche giorno e poi lo si riprende per continuare a leggere e per cercare di capire dove andrà a parare, ma le pagine si susseguono come vogliono: slegate da schemi e sciolte da modelli.

Il primo paragrafo si intitola: Sono qui.
«Sono una bambina. Sto seduta sul davanzale circondata da giocattoli buttati sul pavimento, torri di cubi crollate, bambole con occhi sbarrati. La casa è in penombra, l’aria nelle stanze pian piano si raffredda e si fa sempre più̀ buio. Qui non c’è più̀ nessuno; sono usciti tutti, spariti, si sentono ancora le loro voci affievolirsi, lo strascichìo dei loro piedi, l’eco dei passi e le risate in lontananza. Fuori dalla finestra i cortili sono vuoti. L’oscurità scende con dolcezza adagiandosi su tutto come rugiada nera. La cosa peggiore è l’immobilità: densa e visibile nell'aria fredda del crepuscolo e nelle luci flebili delle lampade al sodio che, ad appena un metro di distanza, si insabbiano nel buio. Non succede nulla, la marcia dell’oscurità si ferma davanti alla porta di casa, tutto il frastuono si placa e crea una pellicola spessa come quella sul latte che si raffredda. I contorni degli edifici sullo sfondo del cielo si estendono all'infinito, perdono lentamente gli angoli acuti, le sporgenze, gli spigoli. La luce che svanisce porta via l’aria, non ne rimane più̀ da respirare. L’oscurità ora mi penetra nella pelle. Tutti i suoni si sono ritirati su se stessi, come gli occhi delle lumache; l’orchestra del mondo se n’è andata ed è svanita nel parco. Quella sera ho scoperto per caso il limite del mondo, giocando, senza volerlo. E l’ho scoperto perché per un attimo mi hanno lasciato sola, incustodita. Naturalmente mi sono ritrovata in trappola, bloccata. Sono una bambina, sto seduta sul davanzale e guardo il cortile freddo. Le luci della mensa scolastica sono già spente, se ne sono andati tutti. Le lastre di cemento del cortile si sono impregnate di oscurità e sono scomparse. Le porte sono tutte chiuse, le serrande abbassate e le tende tirate. Vorrei uscire ma non saprei dove andare. Solo la mia presenza assume contorni netti che tremano e fluttuano, e mi fa male. In un attimo scopro la verità: non c’è più̀ nulla da fare, io sono qui» (pp. 5-6).

Il linguaggio è denso e profondo, poetica la prosa quando si riferisce ai temi come lo spostamento, la migrazione o l’abbandono.  
Insolite sono le vicende narrate in un puzzle ricco di immagini: dalla sorella di Chopin che porta il cuore del musicista da Parigi a Varsavia, all'anatomista olandese Philip Verheyen scopritore del tendine di Achille, al bambino nigeriano Soliman, rapito e portato alla corte d’Austria come mascotte e poi impagliato e messo in mostra, al popolo di nomadi slavi, i bieguni, o ancora le vicende della figlia del famoso anatomista olandese Ruysch.
In ciascun racconto, la narrazione accompagna gli eventi, passando da registri crudi a toni intimisti, da andamenti veloci a tratti moderati.
Particolari sono le tesi espresse dall’autrice, dalla psicologia del viaggio al concetto sul tempo. Ogni posizione si apre a plurime direzioni e ogni gesto conduce a nuove rotte.    
«Eppure io ho un’altra visione del tempo. Il tempo di tutti i viaggiatori è l’insieme di molti tempi in un’unica, grande molteplicità. È il tempo dell’isola, arcipelago dell’ordine in un oceano di caos; è il tempo generato dagli orologi delle stazioni, diversi ovunque. È il tempo convenzionale, quello medio che quindi nessuno deve prendere troppo sul serio. Le ore scompaiono in un aereo che vola, l’alba arriva veloce con il pomeriggio e la sera alle calcagna. Il tempo frenetico delle grandi città dove si ferma solo per un attimo, per farsi imprigionare da una serata qualsiasi, e il tempo pigro delle pianure deserte viste dall'alto» (p. 54).
Nell'incessante transitare si trovano le nuove destinazioni, nell'attraversare si rivelano le nuove strade e solo con la mobilità si scopre la realtà, si intitola poi così il paragrafo a pagina 242.
«Dondola, continua, muoviti. È l’unico modo che hai di sfuggirgli. Colui che governa il mondo non ha potere sul movimento e sa che il nostro corpo in movimento è sacro, solo allora potrai sfuggirgli, una volta che sarai partita. Lui regna su ciò che è immobile e congelato, su ciò che è passivo e inerte […] Muoviti, vai. Beato è colui che parte» (pp. 241- 244).
Sorprendente, accattivante, singolare.

Silvia Papa