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"Il vento selvaggio che passa": la voce spietata, autentica, di un fuoriclasse del realismo americano

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Il vento selvaggio che passa
di Richard Yates
Minimum Fax, 2020

Traduzione di Andreina Lombardi Bom

pp. 508
€ 19 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)


Ogni opera di Yates è, inevitabilmente, analizzata e letta in confronto con Revolutionary Road, il suo romanzo più celebre e celebrato: è normale, è un capolavoro, non solo nella produzione letteraria di Yates, ma in generale come esempio inarrivabile di quel realismo americano da cui è venuto tutto il resto; è difficile, quindi, considerare ogni singola opera di Yates senza pensare a quel romanzo, ma per forza di cose gli si farà sempre un torto, perché niente può reggere pienamente il confronto con Revolutionary Road. Ne era consapevole lo stesso Yates e non è difficile immaginare come debba essere frustrante passare un’intera carriera letteraria tentando di replicare il successo e la perfezione di quel primo romanzo.
Eppure siamo ingiusti a considerare tutto ciò che ha scritto nella sola ottica di confronto con la vicenda dei Wheeler, perché Yates è stato uno scrittore straordinario anche al di là di quel romanzo e ne ha dato prova, per esempio, in alcuni racconti praticamente perfetti contenuti nella raccolta Undici solitudini, in romanzi come Sotto una buona stella, Easter Parade, Una buona scuola, solo per citarne alcuni tra i più esemplari.
Il vento selvaggio che passa è l’ultimo tassello nella ricostruzione bibliografica di questo autore immenso, un «artigiano della parola», come lo definì l’amico ed editore Seymour Lawrence, che Minimum Fax ha da poco portato in libreria: penultima opera di Yates, chiude il cerchio con un romanzo che richiama molti dei temi cari all’autore ed è per sua natura una lettura imprescindibile per ogni estimatore dell’opera di Yates. Un romanzo notevole, quindi, ricchissimo e dall’ampio respiro, che tuttavia non mi ha convinta fino in fondo: difetti minimi, certo, ma da un autore straordinario e venerato come Yates non possiamo aspettarci niente di meno che la perfezione.
Manca a mio avviso in questo romanzo – e, si badi bene, non lo dico solo in confronto con Revolutionary Road – una certa tensione narrativa, quel senso di dramma imminente ad attraversare la pagina, mentre per contro vi è a tratti una sovrabbondanza di scene e digressioni superflue, che contrastano con la pulizia narrativa tipica di Yates in cui ogni parola e ogni brano sono assolutamente necessari e funzionali. Gli stessi personaggi corollari tendono talvolta a imporsi troppo sulla scena, distogliendo il lettore dal cuore della narrazione che è, ancora una volta, il racconto della vita coniugale che va in frantumi, rappresentata da Michael e Lucy Davenport. È chiaro, alla luce di queste considerazioni, che sono davvero difetti minimi in un romanzo notevole, ma, come si è detto, Yates ha abituato i suoi lettori a pagine di rara bellezza e perfezione.

Ne Il vento selvaggio che passa, Yates ancora una volta riesce a creare sulla pagina uno spaccato perfetto della vita di provincia degli anni Cinquanta-Sessanta: fragilità, solitudini e incomprensioni all’interno di un matrimonio, le frustrazioni derivanti dalla continua tensione fra desideri – artistici, come di consueto – e compromessi quotidiani, fra aspirazioni e realtà:
Lo sai cosa abbiamo fatto, Lucy? Io e te? Abbiamo passato le nostre vite a struggerci. (p. 206)
È il canto disperato della mediocrità umana, che nasconde le proprie inadeguatezze e illusioni dentro l’alcol e le droghe, i tradimenti, gli eventi sociali cui è necessario prendere parte nel tentativo di brillare di luce riflessa. Michael e Lucy Davenport sono ancora una volta una coppia come tante: conosciuti al college, sposati molto giovani, una figlia da crescere, al momento opportuno trasferitisi nella giusta area suburbana, affascinati dall’ambiente bohémien in cui cercano di inserirsi. Ma è una finzione, l’ennesima illusione dei Davenport. Come i migliori personaggi di Yates, infatti, hanno aspirazioni artistiche, non alimentate tuttavia dal talento necessario per riuscire ad affermarsi. Non resta altro da fare che provarci, strenuamente, accettare un mediocre lavoro in una rivista con cui Michael possa provvedere ai bisogni della sua famiglia perfetta, andare di tanto in tanto in città per consegnare i progetti assegnatigli e dedicarsi anima e corpo a coltivare il sogno di affermarsi come poeta; frequentare le persone giuste, nell’illusione di diventare loro stessi le persone giuste, tra studi d’arte, feste e occasioni sociali.
C’è una parte illuminata e una parte in ombra, e quegli affari alti laggiù sono alberi, e qui non c’è niente che possa mai farti del male. Devi solo ricordarti di non andare oltre i margini, perché là fuori è tutto sassi scivolosi e fango e rovi, e potresti vedere un serpente e fartela sotto dalla paura. (p. 472)
La cosa curiosa è che i Davenport non avrebbero assolutamente bisogno del denaro derivante da quel lavoro in città: perché Lucy è, in una parola, ricchissima. Un “dettaglio” minimo, che tuttavia incrina fin da principio le dinamiche matrimoniali e contribuirà ad allontanare i due.
Il divorzio, altre relazioni, matrimoni, fallimenti vari, tanto sentimentali che professionali. Il racconto di Yates si alterna tra l’uno e l’altro: le nevrosi di Lucy e la sua incapacità di decidere tra tutte le possibilità date dal denaro e dalla libertà, il sesso, le relazioni e, sullo sfondo, una figlia da crescere, Laura, bambina taciturna e un attimo dopo adolescente ribelle. La seguiamo per tutto il tempo, tra fiumi di alcol, delusioni e tentativi di trovare la propria strada, anno dopo anno, per poi, improvvisamente, ritrovare il filo della narrazione con Michael, all’indomani del divorzio, preda di quello che sarà solo il primo di uno dei tanti episodi psicotici con cui dovrà fare i conti. La malattia mentale, i ricoveri, la terapia e la psicanalisi, sono elementi che ritornano in più forme nel corso del romanzo e delle vite della famiglia Davenport, così come l’alcol o le droghe ad annebbiare la frustrazione. Michael, che non ha saputo accettare la posizione privilegiata della moglie, ostinatamente convinto che possedere una rendita che non ci si è guadagnati finisca con il corromperti, rovinare ogni cosa.

Una cosa Lucy e Michael sicuramente hanno in comune, sia durante il matrimonio che quando questo era già finito: entrambi vivono con un costante bisogno di approvazione, per allontanare lo spettro della mediocrità e dell’inadeguatezza, ma inevitabilmente scontrandosi con una realtà crudele, con il compromesso, con il fallimento. La vita coniugale, le relazioni, diventano nella narrazione di Yates una trappola, un veleno che finisce con l’alimentare la solitudine da cui si cerca inutilmente di scappare.
«Eh, il matrimonio è una cosa strana, Mike», disse una volta Harold con il vento che gli disperdeva il vapore della voce oltre la spalla. «Uno può andare avanti per anni senza sapere nemmeno con chi è sposato. È un enigma. […] Poi magari ogni tanto guardi quella ragazza, quella donna, e pensi: Che succede? Com’è questa storia? Perché lei? Perché io?». (p. 162)
Ecco, la solitudine, è la chiave di lettura di ogni pagina di Yates, dalla quale non offre alcuna consolazione, mai, ma proprio in questo risiede a mio parere il piacere letterario dei suoi romanzi e racconti. Yates non prende mai per mano il lettore, non fa sconti, non da premi di consolazione. Sta a noi, alla fine di ogni romanzo e storia, immaginare cosa ci sia oltre lo spazio bianco, se una felicità possibile per i personaggi, se un lampo di luce a squarciare la pagina. Che il dramma sia irrimediabilmente tragico, come in Revolutionary Road, o più pacato come in questo romanzo, resta comunque la sensazione di una sconfitta.
Ma che cos’è quel “vento selvaggio” del titolo adottato dall’edizione italiana? E i giovani cuori infranti della versione originale? È un’ulteriore chiave di lettura per questo romanzo che riflette, anche, sul tempo che passa, sulla gioventù che inesorabile sfuma e porta con sé la perdita e la sofferenza: perdita delle possibilità, di un certo grado di libertà e istinto, quel “vento selvaggio” appunto che passa.

Sullo sfondo di un’America che cambia, dal costume alla politica, ne Il vento selvaggio che passa, quindi, Yates costruisce ancora una volta il suo intimo dramma, il crollo dell’illusione, mentre regala al lettore piccoli squarci sulla scrittura, fra tecnica narrativa, considerazioni sulla mercificazione dell’arte, sottesi rimandi agli autori amati da Fitzgerald a Hemingway, in un piacevole gioco metaletterario, pulito e mai autocelebrativo. Un romanzo imperfetto, si diceva, non pienamente all’altezza di altri esempi della produzione letteraria di Yates, eppure una spanna sopra a tanta mediocrità che circola. La voce spietata, vera, lo sguardo attento. La luce, che entra.


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«Eh, il matrimonio è una cosa strana, Mike», disse una volta Harold con il vento che gli disperdeva il vapore della voce oltre la spalla. «Uno può andare avanti per anni senza sapere nemmeno con chi è sposato. È un enigma. […] Poi magari ogni tanto guardi quella ragazza, quella donna, e pensi: Che succede? Com’è questa storia? Perché lei? Perché io?». L’ultimo romanzo di un autore amatissimo, “artigiano della parola” come lo descriveva l’amico ed editor Seymour Lawrence, è uno squarcio sulle solitudini dentro un matrimonio, sul compromesso fra aspirazioni e realtà e molti altri spunti e temi cari all’autore. #RichardYates è stato un maestro assoluto del realismo americano, uno di quelli scrittori per cui la nostra @deboralambruschini ha un posto speciale nella sua libreria e a cui torna spesso. Oggi, sul sito, la recensione de #IlVentoSelvaggioChePassa E voi avete letto Yates? #CriticaLetteraria #yates #book #bookquotes #quotes #quoteoftheday #bookstagram #booklover #bookblogger #bookaddict #libri #libridaleggere #instabook #instalibri #romanzo #scrittori
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