La nuova stagione
di Silvia Ballestra
Bompiani, 2019
pp. 276
€ 17,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
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Cosa succede quando una “nuova stagione” arriva a sradicare e stravolgere tradizioni consolidate? Cosa si perde quando la modernità minaccia i lari domestici, le leggende di un tempo, le abitudini sociali e familiari? È quello che si chiede Silvia Ballestra nel suo romanzo, nominato tra i dodici finalisti allo Strega 2020. Due sorelle, Nadia e Olga, stanno infatti vendendo i terreni di famiglia, in quel francobollo sulla piantina che sono le Marche del sud, ai piedi dei Monti Sibillini, territorio contraddittorio e difficile da raccontare:
Escursioni per famiglie, ma anche elisoccorso […]. Placide terme per anziani […], ma anche terremoti da cui dover fuggire a gambe levate. […] Culto dei papi mandati a Roma da quelle terre, ma anche bestemmie a profusione. Divino e pagano, antico e moderno. Musica e urlo.
Si perde, innanzitutto la lingua, con quella infinita varietà di sfumature che il dialetto porta con sé. Si perdono i numi tutelari, come il tasso che scava i suoi cunicoli sotto la superficie del terreno, o la quercia secolare che vi stende al di sopra i suoi rami nodosità. Si perde qualcosa delle proprie radici. Quella che viene trasmessa è una visione tutt’altro che idilliaca del mondo contadino, spesso duro e cinico, qualcosa di cui una certa italianità pare impastata per lungo uso:
Per mio zio, come per tanti padri, bisognava tenersi lontano da tutto, ma questo è un altro discorso, essendo noi, in quella parte di mondo, popolazioni misantrope e schive, timide e solitarie, prudenti e immobili, disfattiste e senza troppi slanci (dunque molto influenzate dal contadinesco, anche se nostro malgrado: per storia e geografia, non per cattiva volontà).
Narratrice interna è una cugina di secondo grado, cosa che le consente una visione in parte distaccata degli eventi. È lei a scavare nelle ragioni profonde per cui Olga e Nadia si sono risolte a vendere la terra, andando oltre le motivazioni economiche e risalendo invece indietro nel passato, nella storia delle due sorelle. Al momento della vendita entrambe si trovano in una fase della vita in cui, segnate dai fallimenti dei loro sogni giovanili e deluse dalle persone in cui hanno creduto, hanno bisogno di farsi parte attiva nella propria vita, di avere una qualche forma di riscatto. E proprio nel vendere le terre, con grande fatica e frequenti scatti di nervosismo, ma anche di risate e grande complicità, riescono a riscoprirne il valore, e a ritrovarsi. Allo stesso tempo, però, non c’è in questo nulla di retorico o melenso: Nadia e Olga sono due donne pragmatiche, decise, due donne che si muovono in un mondo maschile e maschilista e che hanno imparato a farsi rispettare. Il settore agricolo, anima fondante del Paese, annega nella burocrazia e perde ogni poesia – non c’è spazio alcuno per sognatori e sentimentali, nonostante a tratti la meraviglia del paesaggio continui a incantare le due protagoniste. Quello in cui si trovano immischiate non è, come ripeteva spesso loro il padre, forse per motivi meno nobili di quanto potesse sembrare, un mestiere per signore, ma un lavoro duro, che spesso non ripaga degli sforzi.
[Olga] lo sa benissimo che lui la odia pur non avendola mai vista, la odia in quanto figlia di patrone e donna, ma ormai è un ricco terzista, ricco sfondato, e “ci avémo tutti quasi cinquant’anni”, quindi perché comportarsi così? Che scemenza è questa della privacy? È solo un lurido dispetto. Uno dei tanti. Un giorno bisognerà parlarne, della dispettosità dei paesani e dei contadini. [...] Sui lavori (trattori a norma Cee per attraversare un metro di provinciale), sui pagamenti, sulle informazioni loro specialità di chiacchieroni pettegoli maledetti, erano tutti stronzi. E cretini, dispettosi. Infantili. Contadini.
Quello dispiegato da Ballestra è un lessico della concretezza e del disincanto, velato d’ironia, che tratteggia il quadro dolce-amaro di un’epoca e di un luogo. Un linguaggio che vuole ricreare un mondo e che si attenua solo un poco, esattamente al cuore del romanzo, quando spunta un dettaglio nuovo a complicare lo scenario, la storia tragica di un’altra donna, in un altro tempo. Sulla famiglia Gentili aleggia infatti il fantasma della signora Proietti, trovata una mattina barbaramente uccisa in mezzo ai campi. Alla sua, si intrecciano le vicende delle sue lavoranti, Santina, Luigia, Meri, ugualmente vessate dal sistema e considerate folli, perché “la società contadina non era solo idillio campestre, sapeva essere feroce ed era bestialmente patriarcale”. Nel raccontare di loro, la prosa si fa più coinvolta, più personale, meno volutamente distanziante di quanto non fosse nella prima metà del romanzo. Ognuna di queste donne, come in modo diverso anche Nadia e Olga, ha fatto esperienza del “lato brutto e marcio delle persone che si mostra, che viene fuori... che si attiva quando ci sono i soldi e la roba di mezzo. E la disperazione”. Questa sezione del romanzo proietta la sua luce, e le sue ombre, anche sulle pagine restanti, ricordandoci che ci sono donne che lottano per autodeterminarsi anche se il contesto rimane ostile, riluttante ad accettarle. Donne che alla fine sono costrette a pagare per non aver accettato compromessi.
C’è anche, nel testo, ed emerge a viva forza al di sotto dell’ironia, l’amore per un territorio bellissimo e ferito.
“Il tempo sarà pure accelerato e il mondo sarà pure allargato,” disse. “Ma qui sembra essersi fermato tutto, da quella prima notte e dei mesi dopo”
Lo sapevamo.
Lo sapevamo tutti.
Perché la nuova stagione affonda nella vecchia le sue radici, inestirpabili come quelle delle palme protagoniste di tante gag tragicomiche all’interno del romanzo e metafora straordinaria di resilienza – di rifiuto della resa. Come uno spartiacque, il terremoto che ha scosso e sconvolto il centro Italia ha mostrato in modo evidente la fragilità delle tradizioni e della cultura locale, ma ne ha mostrato anche la capacità di ripresa, di adattamento, non senza contraddizioni, ai tempi nuovi.
Non si può negare che rimanga qualche perplessità, alla fine della lettura. Non si riesce infatti a non desiderare una direzione più chiara del romanzo, un tentativo maggiore di implicare il lettore che, se c’è, non riesce del tutto, e non riesce sempre. Anche il riferimento alle leggende locali, al patrimonio culturale, che avrebbe potuto fornire un solido puntello al testo, stridere con il pragmatismo dei tempi nuovi, non viene sfruttato appieno. Restano comunque, e sono apprezzabili, la prosa godibile, il gusto spiccato per il ritratto dei personaggi; soprattutto, la volontà di raccontare una realtà, una specifica parte di mondo in bilico tra tradizione e modernità.
Carolina Pernigo
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