Brevemente risplendiamo sulla terra
di Ocean Vuong
La nave di Teseo, 2020
Traduzione di Claudia Durastanti
pp. 292
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
€ 9,99 (ebook)
Tra qualche tempo, messa una certa distanza dalla fine della lettura di Brevemente risplendiamo sulla terra, di Ocean Vuong, probabilmente resterà della trama un ricordo meno nitido, alcune parti scivoleranno via, si confonderanno con altre storie. Quello che il tempo non muterà, tuttavia, sono le sensazioni provate nel corso di questa lettura, che restano appiccicate addosso ben oltre l’ultima pagina, gli spunti e le riflessioni con cui la storia di Vuong ci costringe a confrontarci.
Questo libro è molte cose. Partiamo dalle etichette: è un Bildungsroman ed è forse la sua unica caratteristica che lo riconduce a una narrativa “tradizionale”, un romanzo di formazione doloroso, che restituisce al lettore l’idea di un viaggio ancora in divenire, alcune certezze acquisite, ma molte altre ancora da scoprire, di un ragazzo di origini vietnamite che arriva a due anni negli Stati Uniti e per tutta la vita si scontrerà con la discriminazione, i tentativi di integrarsi, la mentalità di una provincia povera e degradante. Un Bildungsroman di identità da comprendere e costruire, di ricerca di sé quindi e del proprio posto nel mondo, di formazione intellettuale e fusione di culture.
È anche, come sottolinea il suo giovane autore nel corso di una bellissima intervista per SaltoExtra, un Kunstlerroman, una “dichiarazione di intenti artistici”, che non si piega facilmente a rigidi inquadramenti, gioca con la lingua, si fonda su una commistione di generi, per dare vita a una forma ibrida, una contaminazione. Tra poesia e narrativa, romanzo e metafiction, saggio, epistola, fluire di pensieri, in una formula che era l’unica possibile per raccontare questa storia. Una narrazione a tratti frammentaria, cui seguono brani aderenti a ciò che riconosciamo come romanzo tradizionale, mentre i piani temporali e le tradizioni linguistiche si intrecciano. Una polifonia e ricchezza linguistica, culturale, formale, su cui si incastra quella della traduzione in una lingua altra, l’italiano nel nostro caso, resa magistralmente da Claudia Durastanti e davvero non avrei potuto pensare a traduttrice più adatta per questo libro. Lei, la “straniera”, ha restituito al lettore la storia di Little Dog e la sua lingua, l’inglese ricchissimo, le vette liriche della narrazione, le immagini, poi parole, espressioni, dal vietnamita, la lingua di famiglia.
Ogni storia ha più di una diramazione, ogni diramazione è la storia di una divisione. […] Ogni partenza, dunque, è definitiva. Solo i figli tornano, solo il futuro ritorna al passato. (p. 19)
Di un figlio, Little Dog, che scrive questa lunga lettera alla madre, Rose, che mai la leggerà, nel tentativo di trovarsi, di capire, di perdonare forse. Una madre fuggita dalla guerra, che ha sofferto tutta la vita di disturbo da stress post traumatico, preda di scatti di rabbia e violenza, seguiti da momenti di tenerezza e affetto. La guerra, il Vietnam, sono cicatrici che si portano addosso per tutta la vita, la violenza, la povertà, la memoria intesa come storia di famiglia che Little Dog tenta in qualche modo di ricostruire, scavando nelle pieghe del ricordo.
Per anni non ho fatto che dire a me stesso che siamo nati dalla guerra, ma mi sono sbagliato, Ma’. Siamo nati dalla bellezza. Non permettere a nessuno di confonderci con i frutti della violenza. Piuttosto quella violenza, essendosi trasmessa ai frutti, non è riuscita mai a rovinarli. (p. 273)
Sono le donne l’universo famigliare stabile di Little Dog, la madre, la nonna Lan, due figure ingombranti, con le proprie mancanze, fragilità e fantasmi, ma che in qualche modo si prendono cura di lui. Rose, china sulle mani delle clienti del centro estetico in cui lavora, assertiva, invisibile. Lei, con le mani rovinate dai solventi, da trent'anni di lavoro mal pagato. Dov'è il sogno Americano? È un Paese meraviglioso, certo, ma se nasci nel posto giusto, se la tua pelle è del colore giusto, se corrispondi a una certa immagine. È un sogno crudele, che se qualche volta diventa realtà abbiamo imparato ancora una volta, con violenza, quante altre volte non sia così. È il Paese fotografato da Baldwin, da Ta-Nehisi Coates, ma ci sono anche la marginalità e un certo grado di crudezza dei grandi narratori della provincia americana, con le loro storie di miseria (per i neri, per i bianchi) ed emarginazione.
Ed è, ovviamente, la storia di una lacerazione: di due mondi, due tradizioni, il Vietnam e gli Stati Uniti, che Little Dog deve cercare di mediare.
Ecco, è questo a mio avviso, il centro della narrazione, la riflessione sul concetto di identità e la discriminazione con cui il protagonista si scontra, in forme e per “ragioni” di volta in volta differenti: identità come ricerca di sé, un ragazzo che come chiunque altro prova a capire chi è e trovare il proprio posto nel mondo, un percorso reso più difficile dalla mancanza di riferimenti, le possibilità limitate, la marginalità dei luoghi e delle aspettative; identità come fusione di due mondi e due culture, tanto diverse e ostili tra loro, i tratti dell’una, i comportamenti dell’altra, ma in qualche modo sempre un outsider; identità da celare, la scoperta della sessualità e la discriminazione, la violenza, il rifiuto. Celare, nascondersi: per Little Dog è sempre stata una forma di sopravvivenza. Rendersi il più possibile invisibile, non farsi notare perché in qualche modo diverso, che è la piaga di ogni generazione di immigrati, di qualunque etnia:
“Ricordati”, dicevi ogni mattina prima di avviarti nell’aria fredda del Connecticut, “non attirare l’attenzione degli altri su di te. Già sei vietnamita”. (p. 259)
Nascondersi dentro la violenza, che diventa una costante nella vita di Little Dog, assumendo forme diverse, gradi differenti di brutalità.
Ecco, il contrasto fra lirismo e brutalità è uno degli elementi formali più interessanti di questa storia, la poesia e la sensibilità immaginifica che si contrappongono alla crudezza di certi passaggi, al dolore e alla violenza che attraversa le pagine. Le crepe rese magistralmente dalla narrazione che si fa frammentaria, scarna, la parola scelta con precisione chirurgica.
La parola è, in fondo, la forza motrice di questa storia. È la voce che manca alla madre di Little Dog, indifesa, straniera, dal vocabolario insufficiente a difendersi dal mondo ed è la voce che invece tenta di restituirle il figlio, mediatore fra quelle due culture che lui stesso va via via fondendo:
Quella notte mi sono ripromesso che non sarei mai stato di nuovo senza parole quando avresti avuto bisogno che parlassi per te. Ecco come è iniziata la mia carriera da interprete ufficiale di famiglia. Da quel momento in poi avrei riempito i nostri vuoti, i nostri silenzi, i balbettii, tutte le volte che avrei potuto. Facevo avanti e indietro fra codici, ero un interruttore. Mi sono spogliato della nostra lingua e ho indossato il mio inglese come una maschera in modo che gli altri potessero vedere il mio viso, e così anche il tuo. (p. 47)
La lingua diventa una maschera, l’ennesima, da indossare per legittimarsi, rendersi visibili, proprio lui a cui è stato insegnato ad essere invisibile. E proprio lui è nelle parole che trova la dimensione ideale, nello studio, nel componimento poetico, nella ricerca di una voce che sia solo sua, forte, vibrante, che lo mostri al mondo. La lingua che avvicina, ricuce lo strappo, ma, in un certo senso, è usata anche per allontanarsi, concretamente e in senso figurato, per prendere le distanze dal mondo in cui è cresciuto e scrivere questa lettera consapevole che la persona cui è indirizzata e dedicata in ogni sua pagina non potrà leggerla.
Ti scrivo per avvicinarmi a te, anche se ogni parola che butto giù è una parola in più che ci allontana. (p. 13)
Parafrasando – malamente – Carver, le parole sono tutto quello che abbiamo, ma trovare quelle giuste significa accettare il dolore e le crepe che si formano sulle pareti. Simili a quelle stesse crepe osservate da Ocean Vuong nel corso di una visita privata a Palazzo Reale, a Milano, la sala nell’oscurità, la luce naturale che entra dalla finestra a illuminare proprio le crepe lasciate dalle bombe della seconda guerra mondiale, che restano lì, parte integrante di quello che si è, del vissuto che c’è stato. Ci sono crepe in ognuno di noi, ma forse dovremmo imparare a non nasconderle. A farvi entrare la luce.