Avevamo lasciato Filippo Venturi un paio d'anni fa alle prese con i tortellini che - sia mai! - non devono toccare nemmeno una goccia di sugo - ché il loro posto è nel brodo - e lo ritroviamo con un altro mito culinario dell'Emilia: gli spaghetti alla bolognese. Tuttavia, se state pensando di trovarvi di fronte ad un semplice libro di cucina vi sbagliate di grosso: se acquistate il libro (e vi consigliamo di farlo!), infatti, sarete in men che non si dica catapultati in un'avventura investigativa degna della migliore penna, accompagnati da un costante desiderio di conoscere il finale della vicenda che vi porterà in breve tempo a terminare la lettura. Il nostro protagonista, infatti, è un oste che vorrebbe starsene tranquillo e cucinare per i clienti della sua osteria nel centro di Bologna, tuttavia per qualche motivo si trova sempre coinvolto in qualche caso da risolvere e che per varie coincidenze di volta in volta diverse incrociano il suo cammino.
Dopo aver recensito sia il precedente Il tortellino muore nel brodo, che l'ultimo, Gli spaghetti alla bolognese non esistono, abbiamo pensato di fargli qualche domanda a cui gentilmente si è prestato.
- Innanzitutto, grazie per aver accettato di prendere parte all’intervista. Cominciamo con una domanda introduttiva: sappiamo che nella vita gestisci un’osteria a Bologna, come ti sei avvicinato alla scrittura? E come sei arrivato in Mondadori?
È
una domanda a cui non so ancora rispondere con lucidità. A volte penso
sia stato casuale, una sorta di fatalità, perché nella vita le cose
semplicemente accadono. Una decina di anni fa ho deciso di mettere nero
su bianco dei racconti sulla mia infanzia/adolescenza negli anni Ottanta
a Bologna e ne è uscito un libro, edito da Pendragon, che in città è
andato molto bene. Mi sono talmente divertito che non mi sono fermato
più. Il fatto è che io vivo sempre questa necessità di mettermi alla
prova, soprattutto in campi che non sono i miei. O forse sono io che
penso che non lo siano, perché alla fine tutto torna. Anche la
ristorazione l’ho iniziata quasi per gioco, nel periodo post laurea in
giurisprudenza: dopo aver portato a temine il mio lungo percorso di
studi, ho mollato tutto dal giorno alla notte, proprio come il mio
Zucchini, che di fare l’avvocato e “litigare” per vivere non ne voleva
mezza. Invece poi, a freddo, mettendo in fila i pensieri, le sensazioni,
ho capito che aprire una trattoria era un sogno di mia nonna, e l’ho
fatto mio. La scrittura inizialmente mi ha sorpreso, poi mi ha travolto,
come solo le grandi passioni sanno fare. Oggi la vedo come la “Pista
cifrata” della mia vita. Avete presente quel gioco della Settimana
enigmistica, in cui se unisci i punti ti esce una figura? Io scrivo di
un oste bolognese che indaga. Altroché casualità, questo per me
rappresenta passato, presente e futuro, una corda spessissima che tiene
stretto tutto… E lo faccio per Mondadori, che, non posso negarlo, è una
medaglia che porto al collo con fierezza. Ci sono arrivato grazie a una
persona che ha fortemente creduto in me: Andrea Delmonte.
- Il personaggio di Emilio Zucchini è carismatico, coinvolgente, simpatico e – magia della narrativa – al lettore sembra di conoscerlo da sempre. Ci racconti come hai fatto a delineare un personaggio tanto riuscito? È stato frutto di un’intuizione folgorante oppure l’hai costruito poco per volta?
Innanzitutto,
grazie. Ma dopo tutti questi complimenti, non posso di certo
risponderti che Zucchini è molto simile a me: ne uscirei malissimo…
Scherzi a parte, con Zucca volevo andare a colpo sicuro. E ho cercato di
costruire la figura di un ristoratore come ce ne sono tanti: affabile,
accogliente, anche affascinante. Quello che ti guida nel menù col calore
di casa e tu semplicemente ti fidi. Ovviamente perspicace, perché i
ristoratori, grazie al loro continuo contatto con le persone, le sanno
riconoscere al volo. Dietro al banco è appeso lo specchio della vita, e
la gente ci si riflette dentro, con i suoi vizi e le sue virtù.
Parafrasando proprio Emilio Zucchini, “…è così facile inquadrare i
clienti al primo sguardo che Lombroso ha sbagliato a diventare un
antropologo criminologo: doveva fare l’oste, si sarebbe divertito molto
di più.”
- Con questa domanda potremmo prenderti in contropiede: c’è qualcosa di Emilio che non ti piace e che tornando indietro cambieresti nella definizione del suo carattere?
In
realtà c’è una cosa che non è uscita come volevo, ma ciò non significa
che la cambierei, anzi. Però mi ha meravigliato il suo sviluppo. Volevo
che Zucchini fosse single, senza famiglia. Lo sognavo scapolone e
cascamorto, pensando che in questo modo avesse la possibilità di crearsi
avventure e incontri. La ritenevo anche un’ottima chance narrativa per
me, invece per adesso lo vedo un po’ impacciato. Lo immaginavo libero e
sereno, invece è proprio solo.
- Sempre parlando del tuo processo creativo, come scrivi le tue storie, ti lasci guidare dall’ispirazione del momento e scrivi a ruota libera oppure prima crei una specie di bozza, uno schema guida, dell’intera storia e poi segui quello?
Seguo
sempre l’ispirazione. È lei che comanda. Ma a volte l’ispirazione non
va aspettata. Va cercata. Con l’impegno, col tempo, stando anche ore
davanti al foglio bianco. Sforzandoti. Leggendo. Prendendo spunto. Io
non faccio mai eccessivi schemi, scalette, cose così. Lascio guidare la
fantasia. Entro nelle scene con i miei personaggi e osservo, per capire
se non mi sia sfuggito qualcosa. Però devo sapere da dove parto e
soprattutto dove voglio arrivare. Qual è il messaggio. Che cos’ho da
raccontare. Devo avere una direzione. Poi, sì, il percorso può cambiare,
anche cammin facendo. Anzi, è forse la cosa più stimolante: scoprire un
sentiero che non conoscevi e addentrartici dentro, anche con
incoscienza, scovare nuove prospettive, stupirti. Ma mai perdersi. Se da
Bologna devi andare a Torino e imbocchi una strada diversa, ok. Se ti
ritrovi a Roma è un guaio.
- Come scritto nella recensione dedicata al tuo libro, una delle cose che colpisce di più in questo romanzo è la decisa maturazione che sembra aver subito la tua abilità narrativa, con l’inserimento di una venatura più oscura, rispetto al primo libro, in particolare nel personaggio del ladro del quadro della Madonna di San Luca. È stata una ricerca voluta oppure un’evoluzione spontanea e involontaria?
Gli spaghetti alla bolognese non esistono di Filippo Venturi Mondadori, 2020 pp. 204 Clicca per comprare il libro |
Ritorno
alla risposta precedente: probabilmente la maturità deriva anche da una
maggiore consapevolezza del percorso che voglio intraprendere. Ho
capito esattamente la direzione in cui devo andare. Ironia, humor,
sdrammatizzazione, ma anche introspezione, emotività, tecnica, talento,
incoscienza. Fantasia e realtà, due facce della stessa medaglia.
Passione. Il Grande Gandhi, il ladro “oscuro” di cui parli, rientra in
tutto ciò. È un maldestro, inetto, ignavo, un buttafuori con gli
attacchi di panico, che a tratti non sopporti e a tratti, invece, ti
rendi conto di volergli bene. Uno che nella vita ha perso e a cui io do
una seconda possibilità. Perché nelle mie storie, per come sono fatto
io, voglio stare dalla parte dei più deboli. Mi piace mettere in
discussione le cose, non dare nulla per scontato, togliere l’alibi del
preconcetto. Se ci pensi bene, anche nella nostra quotidianità è così:
non sai mai fino in fondo chi siano i buoni e chi i cattivi, chi la
guardia e chi il ladro, chi è riuscito ad arrivare barando e chi non ce
l’ha fatta onestamente. A me piace giocare su questa confusione, indurre
il lettore a non capire esattamente per chi tifare.
- Quali sono i tuoi scrittori di riferimento? Hai magari dei modelli a cui ti ispiri?
Amo
leggere i noir americani contemporanei, quelli non solo di trama. Don
Winslow è il mio massimo punto di riferimento, soprattutto quando è più
ironico che violento. Nel lotto ci inserisco anche Elmore Leonard, J. R.
Lansdale e John Niven. Sono tutti scrittori da black comedy, non
convenzionali, di sicuro originali. Infatti tra gli italiani te ne
indico alcuni altrettanto singolari: Robecchi, Malvaldi, il primo
Ammaniti. Anche Giuliano Pavone, scrittore tarantino autore di alcuni
romanzi di grande caratura.
- Un’altra delle cose che colpisce di più nei tuoi libri è la dolcezza con cui descrivi la tua città: che rapporto hai con Bologna?
Con
Bologna, ahimè, ho un rapporto di amore quasi viscerale. A Bologna devo
tutto e, di nuovo, non è un caso che le due discipline in cui mi
cimento sono le stesse in cui lei da sempre eccelle: cucina e arte.
Bologna è la dotta e la grassa e probabilmente il mio è anche un modo
per provare a renderle qualcosa, per onorarla al meglio. Ho scritto
“ahimé” perché, come succede sempre in questi casi, tutti i rapporti
troppo intensi si portano dietro strascichi negativi. I legami forti
creano dipendenze, radici, abitudini. Io non sono un cittadino del
mondo, e la cosa mi ruga molto. Io sono semplicemente un bolognese. Io
non lascio mai Bologna se non per rientrare presto. Io non viaggio,
stacco. A causa di questo, storicamente, mi sono privato
dell’opportunità di fare esperienze importanti lontano da casa. Ma è
così, indietro non si torna.
- Facciamo un gioco da scrittori, se dovessi antropomorfizzare la città di Bologna, come la descriveresti?
Bologna
nei miei romanzi è sempre un personaggio più che un luogo, quindi già
questo è antropomorfismo. In realtà Bologna è una città strana, oserei
dire ambigua. È aperta e solidale, ma anche un po’ snob. È ruffiana. Ti
accoglie, ti allarga le braccia, ma le richiude prima di averti
afferrato del tutto. Se parli con un non bolognese che studia o lavora
in città, anche da anni, o che addirittura si è trasferito qui, te lo
può confermare. E poi è autoironica, ma permalosa. Mi prendo in giro,
sì, lo so fare eccome. Ma lo faccio io. Tu non ti permettere.
- Hai in mente nuove avventure per Emilio Zucchini? Ci saranno altre indagini per lui? (Speriamo di sì!)
Grazie,
lo spero tanto anch'io! Guarda, ti voglio dire una cosa. Emilio si è
preso tanto di me. A volte arrivano in trattoria e mi chiedono: “È lei
Zucchini?” Parlano di lui, io non esisto più. Meglio così, almeno me ne
sto in disparte. La verità è che si è creato un rapporto talmente
intenso tra noi, che non so più se sia lui a ispirarsi a me o viceversa.
Non so se doveva andare proprio così, ma nei periodi in cui sto senza
di lui, un po’ mi sento solo. Per cui…
Ringraziamo Filippo Venturi per
quest'intervista, rinnovandogli i complimenti e augurandogli di dare presto corpo ad una nuova avventura!
Intervista a cura di Valentina Zinnà
Intervista a cura di Valentina Zinnà
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