Tralummescuro. Ballata per un paese al tramonto
di Francesco Guccini
Giunti, 2019
pp. 288
€ 19 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
“Ricordo i nomi che da bambino davo alle erbe e ai fiori nascosti. Ricordo dove si trova il rospo e a che ora si svegliano d’estate gli uccelli – e l’odore degli alberi e delle stagioni – che aspetto aveva la gente e come camminava; ricordo anche il loro odore. La memoria degli odori è tenace…” (John Steinbeck)
Non ho mai capito perché quando si parla dei libri di
Guccini non si riesca a fare a meno di ricordare e citare frasi estratte dalle
sue canzoni; così come non ho mai capito perché ogni qualvolta si parla di
libri radicati in un luogo, in questo caso Pavana sull’Appennino
tosco-emiliano, non si riesca a non fare riferimento alla Macondo di Marquez.
Pavana come Macondo ha scritto qualche firma autorevole. Ma è veramente così
simile alla Macondo di Marquez la Pavana di Guccini? E ancora, viene così
difficile distinguere il cantautore dal romanziere?
E’ vero che ad ogni pagina di “Tralummescuro”,
ultima fatica letteraria di Francesco Guccini edito da Giunti, a chi lo ascolta
da tanti anni ritornano nitidi alla mente i versi, perché di versi si tratta,
delle sue più importanti canzoni; ed è pure vero che frasi di “Cent’anni di solitudine” bene si
prestavano per introdurre queste mie impressioni, ma credo che l’essenza di
questo meraviglioso racconto, che nasce dai ricordi dell’autore, sia contenuta
nella sua totalità nel pensiero di Steinbeck tratto da quel capolavoro della
letteratura che è “La valle dell’Eden”.
Che sia Marquez o che sia Steinbeck, l’opera merita una valenza soprattutto
letteraria anche perché Guccini è uno scrittore a tutti gli effetti e non un
cantautore che a tempo perso scrive qualche libro.
“Tralummescuro” è un termine dialettale modenese che indica
l’imbrunire; quella precisa ora in cui il giorno sta per finire e cede il posto
alla sera. E proprio nelll’ora in cui i paesi del suo Appennino e i borghi
circostanti si spopolano per dare spazio ai ricordi, Guccini fa ritorno nella
sua terra, a Pavana, nel luogo da dove ha preso avvio il suo percorso letterario
con “Cròniche Epafàniche” proseguito
con “Vacca d’un cane”, “Cittanòva
blues” e (speriamo non concluso) con “Tralummescuro”
che sembra quasi il testo con cui voglia chiudere il cerchio.
L’uso del dialetto è peculiare e
Guccini se ne serve molto:
Il nostro era un dialetto povero, di gente povera, però era usato quotidianamente per comunicare notizie, emozioni, dichiarazioni d’amore, odio, lite. L o si parlava in famiglia, mangiando, dividendo i compiti che ciascuno aveva nella giornata. Il dialetto ti fasciava, ti avvolgeva, nominava le cose che ben conoscevi, la tua famiglia, i tuoi amici, i tuoi animali, le tue piante, con nomi diversi e paralleli a quelli della lingua italiana.
Intreccia e contamina la lingua
italiana con il dialetto modenese per suggellare, semmai ce ne fosse bisogno, il
forte legame che lo lega alla sua terra e per dare ulteriore forza ed emozione
ai ricordi che riaffiorano dal passato e il libro ne è pregno e i ricordi, come
sempre avviene soprattutto per quelli lieti, inducono alla nostalgia e alla
malinconia, sentimenti con i quali racconta, in tono quasi fiabesco, della sua
Pavana, riporta alla memoria luoghi e persone narrando di come un tempo quei
luoghi erano animati e pullulanti di gente e animali che con le loro voci e i
loro versi sovrastavano il silenzio di quei sentieri allora polverosi. E’ inevitabile,
quindi, il confronto tra quello che fu la civiltà contadina della sua infanzia,
lenta, semplice, pura e incontaminata, in cui la lingua, il dialetto in
particolare, caratterizzava una comunità, con il presente nevrotico e frenetico
in cui il nostro vivere è affidato ai computer, ai cellulari e alla televisione
che ci hanno fagocitato fino al punto di impedirci di dedicare un po’ del
nostro tempo ai ricordi:
La vecchia cultura contadina di una volta non c’è più, appare rarefatta in sottilissimi e lontanissimi strati, ma è scomparsa, affogata, nessuno parla più in dialetto, molti non l’hanno mai parlato, e non c’è cultura altra a sostituire quella vecchia. Ha fatto il suo ingresso trionfante quella della televisione, delle trasmissioni più trucide che formano le opinioni e le coscienze, col senso di paura per aggressioni, furti, violenze che le stesse televisioni instillano.
Steinbeck scriveva che “la
memoria degli odori è tenace” e Guccini rimpiange e ricorda soprattutto questo:
l’odore intenso delle case e delle strade di allora; i sapori dei piatti della
tradizione quasi del tutto scomparsi; i riti delle festività e i preparativi
delle vigilie delle feste più importanti; i racconti degli anziani nelle sere
d’inverno attorno a quel focolare che riscaldava un’unica stanza; le bevute di
vino, le bestemmie e le “risse” durante le partite a carte.
Ora di tutto questo non c’è più
nulla. Solo gli anziani continuano a esserci, ma non giocano più a carte, al
massimo
mangiano, guardano un po’ di televisione, si addormentano sul divano e vanno a letto a dormire, aspettando quel lungo sonno che, bene o male, aspettano tutti i giorni, lassù, dove tutti andremo a dormire, lassù in Vignale, a raggiungere quelli che ci sono già, a fare due chiacchiere con loro, tutti della stessa età, tutti giovani, belli, sani, e sentirsi dire «Oh tò, sei rivato anche tè - e a giocare a bocce, a bere il fiasco, a guardare ‘gni tanto quaggiù di sotta», e dire: «Pòri bìscheri, noi il nostro l’abiam già fatto, adessa son proprio fatti vostri».
Così si conclude questo
emozionante flusso di ricordi e questa conclusione, dal sapore amaro, mi ha
dato come la sensazione che Guccini voglia chiudere, dopo averlo fatto con le
canzoni, anche con i libri e stare lì, nella sua Pavana, come gli anziani ad
aspettare il lungo sonno lasciandoci orfani dei suoi racconti, della sua
cultura e della sua intelligenza.
L’augurio e la speranza miei, e penso di molti, sono che ciò non avvenga e che
l’amato Francesco continui ancora per molto tempo a raccontare la “sua” e la
“nostra” vita; la “sua” terra che è anche un po’ nostra; che continui a
condividere con noi lettori i suoi ricordi.
Francesco, “ci piaccion le fiabe,
raccontane altre”.
Liborio Volpe