In nome della madre
di Erri De Luca
Feltrinelli, 2006
pp. 81
€ 7,00
Miriàm/Maria “partorì da sola. Questo è il maggior prodigio di quella notte di natività: la perizia di una ragazza madre, la sua solitudine assistita. [...] “In nome del padre”: inaugura il segno della croce. In nome della madre s’inaugura la vita” (p. 9).Erri De Luca racconta in queste pagine, forse tra le sue più note, una delle storie più famose di tutti i tempi, riuscendo a renderla però qualcosa di nuovo, di mai detto. La storia del Salvatore inizia infatti ben prima della sua venuta al mondo, nel momento in cui, in un soffio di vento, una giovane promessa sposa si scopre gravida, dopo un annuncio di cui non ricorda bene le parole – che tornano come echi vaghi, travolti dalla dimensione molto più concreta, carnale, di un figlio che cresce nel grembo.
La focalizzazione scelta dall’autore è quella interna: in quattro “stanze”, Miriàm racconta in prima persona la sua gestazione inattesa. Perché gli angeli, quando si presentano sulla terra e poi se ne vanno, “lasciano un dono e pure una mancanza. [...] Lasciano parole che sono semi, trasformano un corpo di donna in zolla di terra” (p. 16). La vicenda acquista dunque una dimensione umanissima, incentrata sul tema della femminilità riscoperta attraverso la maternità: “ero felice. Essere piena, crescere come la luna, contare le settimane come per il travaso del vino, non avere il ciclo, tutto era una purezza che mi ubriacava di gioia. Di notte spostavo la tenda e respiravo il vento del cielo” (p. 30). Al tempo stesso, però, De Luca non manca di mettere in evidenza gli aspetti più problematici di questa maternità: per una giovane donna ebrea, non ancora sposata, un figlio al di fuori del matrimonio è causa di immediata condanna, di esclusione sociale.
Così nella narrazione due prospettive si scontrano: quella della comunità, pettegola e maldicente, e quella di Iosef, retto, onesto, incrollabile, che si fa portatore di un messaggio di fede e d’amore contrapposto alla miope rigidità della legge. Iosef crede a Maria, e alla visione dell’angelo. Iosef non cede alla paura, naturale e immediata, che lo vorrebbe far fuggire, per restare accanto alla donna che sposerà comunque, accettando il prezzo che deve pagare chi viola le regole non scritte della pubblica convenienza.
“Nessuno ha torto, Miriàm. Il fatto è che tu sei la più speciale eccezione e loro non hanno cuore sufficiente per intenderla e giudicarla. È una faccenda che ha bisogno di amore a prima vista, mentre loro si ingarbugliano sui codici, le usanze. Per loro tu sei pietra d’inciampo, per me sei la pietra angolare da cui inizia la casa.” (p. 40)
Pur non essendo padre, Iosef lo diventa pagina dopo pagina nella scelta di farsi carico della gravidanza di Miriàm senza esserne responsabile, perdendo il lavoro, facendosi biasimare e insultare da chi non può capire (“grandinavano insulti sulle sue spalle. Si stava facendo lapidare al posto mio”, p. 28). Se la grazia è “la forza sovrumana di affrontare il mondo da soli senza sforzo, sfidarlo a duello tutto intero senza neanche spettinarsi” (p. 36), questo è un dono che spetta alla madre, ma anche all’uomo che le sta a fianco.
Portare in grembo il bambino che cresce, farsi vaso d’argilla, è del resto qualcosa che trasforma, grazie al senso di pienezza che produce, grazie al nuovo valore che questa gestazione divina dà alle parole, alla sicurezza che rende dritta la schiena e alta la fronte. Nel testo di De Luca, Maria si fa donna nel suo diventare madre, e questo le dà una forza inaspettata, quasi sovrumana, tale da permetterle di contrattare con il suo Dio, nel momento della nascita del figlio. Perché in quella prima notte, nella minuscola stalla, la giovane è sola e il bambino che viene al mondo le appartiene, forse soltanto per quelle poche ore. E la notte è il momento delle raccomandazioni, dei consigli e le speranze per la creatura che si sta per mandare nel mondo; il momento libero dalle regole, dalle convenzioni; il momento della relazione unica ed esclusiva tra una mamma e il suo neonato:
Fuori c’è il mondo, i padri, le leggi, gli eserciti, i registri in cui iscrivere il tuo nome, la circoncisione che ti darà l’appartenenza a un popolo. Fuori c’è odore di vino. Fuori c’è l’accampamento degli uomini. Qui dentro siamo solo noi, un calore di bestie ci avvolge e noi siamo al riparo dal mondo fino all’alba. Poi entreranno e tu non sarai più mio.
Ma finché dura la notte, finché la luce di una stella vagante è a picco su di noi, noi siamo i soli al mondo. (p. 67)
In nome di questa relazione, di un accordo accettato senza contrattare, Miriàm può allora fare le sue richieste di madre, esplicite e sofferte, nate dal suo ventre insieme a Ieshu:
Ti tocco e porto al naso il tuo profumo di pane della festa, quello che si porta al tempio e si offre.
Si offre? Che sto dicendo, Signore mio che sto dicendo? Si offre? Ma perché? [...] Cosa mi è uscito di bocca: pane, offerta? Non sia mai, no. [...] Signore del mondo, [...] fa’ che non sia così. Fa’ Che questo brivido salito sulla mia schiena, questo freddo venuto dal futuro sia lontano da lui. Lo chiamo Ieshu come vuoi tu, ma non lo reclamare per qualche tua missione. [...] Fa’ solo che questo bambino sia nessuno nella tua storia, fa’ che sia un uomo semplice, contento di esserlo e che si arrabbi soltanto con le mosche. Fa’ che non sia bello, non susciti invidie. [...] Sia nessuno questo tuo Ieshu, sia per te un progetto accantonato, uno dei tuoi pensieri usciti di memoria. (70, 71-72)
La riscrittura del linguaggio biblico ed evangelico si presta meravigliosamente alla prosa densa di Erri De Luca, alla sua ricerca della parola, mai disposta a caso, sempre ponderata. Quello che viene creato in questo breve volume è il ritratto pastoso, vivido, di una giovane donna, ed è allora perfetta la scelta di Feltrinelli di collocare in copertina un dettaglio della Vergine annunciata di Antonello da Messina, di cui si ritrova in questo testo lo sguardo intenso, il dramma inespresso nel presentimento del futuro, e a cui viene aggiunta invece la pura gioia della maternità, alimentata e sorretta nonostante le inquietudini. Lo scrittore si conferma maestro in una prosa che è in realtà sempre poesia camuffata e che pure non rinuncia mai alla sua straordinaria aderenza alla realtà.
Carolina Pernigo