Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio
di Remo Rapino
Minimum Fax, ottobre 2019
pp. 265
€ 17 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
La scorsa settimana ho comprato una copia di Cuore per rileggerlo. A convincermi, è stato Bonfiglio Liborio, con la sua passione per il capolavoro di De Amicis, regalatogli da quel maestro di scuola un po' mitizzato che aveva visto in lui ottime potenzialità. Ebbene sì, è stato il protagonista di Remo Rapino, indirettamente, a farmi comprare un romanzo che non ricordo con il suo stesso affetto. Miracolo? No, con i romanzi ben scritti e con i personaggi credibili accade questo e altro.
Il suo Liborio non si è limitato a ciò: mi ha fatto riflettere. Il suo sguardo sul mondo apparentemente ingenuo, invece, nasconde fin dalla prima pagina profondi affondi in una "verità" che sentiamo universale. È forse quella comprensione del mondo, priva di preconcetti, che un po' pirandellianamente hanno i matti? Difficile a dirsi: Bonfiglio Liborio non ha avuto una vita facile, di questo siamo certi fin dal principio, ma da qui a chiamarlo "pazzo" ce ne vuole.
Fin dalla sua nascita nel 1926, Liborio ha dovuto imparare a cavarsela, anche a costo di rinunciare alla scuola che gli piaceva tanto: la miseria, che gli resterà incollata addosso per tutta la vita come una patologia congenita, non è però avvertita come tale. Il personaggio di Rapino ci racconta la capacità di adattarsi, senza lamentarsi, di godere dei piccoli piaceri che, tra un lavoro e l'altro, tra una fatica e una vessazione, gli sono concessi. Liborio ha imparato a fare le funi, poi ha lavorato da un barbiere, quindi si è spostato dal suo paese per diventare operaio in più di un'azienda (tra cui la tanto amata Ducati). E lì, Liborio, che ha sempre sognato di riuscire a scoprire il numero più grande del mondo, ha provato a conteggiare il numero di pezzi che ha fabbricato giorno dopo giorno, ma i numeri gli sono sempre sfuggiti dalle mani. Come le persone, che sono morte o che se ne sono andate, senza seguirlo nei suoi spostamenti. Come anche l'amore, d'altra parte: Giordani Teresa, la ragazza che resterà sempre nei suoi ricordi, in tutti i viaggi su e giù per l'Italia, è un ologramma di qualcosa di indefinito. Di concreto, invece, ci sono invece i colleghi di tutti i giorni e le prostitute, quelle con cui Liborio ama anche parlare un po', per scoprire che cosa provino, chi siano in realtà. Così la solitudine di Liborio viene placata solo a intermittenza, tra un addio e un arrivederci. E il tempo, implacabile, passa.
Il tempo, ritmato dai capitoli che recano come titolo gli anni dell'autobiografia di Bonfiglio Liborio, è segnato da tanti "segni neri", eventi indelebili nella memoria del protagonista e che, per questo tornano periodicamente nella narrazione, ma il tempo è anche marcato dai grandi cambiamenti della storia, che vengono guardati attraverso gli occhi di Liborio, occhi trasparenti e, al tempo stesso, acuti nel cogliere i mutamenti della società, così come le incoerenze della politica, dell'economia, delle mode. Si tratta, dunque, di un'autobiografia che si apre spesso al taccuino, che annota il mondo filtrato dalla personalità e dalle idee dello scrivente. Uno scrivente d'eccezione, appunto, poco acculturato però non per questo poco acuto, anti-eroe per eccellenza, non tanto "matto", quanto "sfortunato", come gli dirà lo psichiatra del manicomio. Sì, perché per anni Bonfiglio Liborio vivrà anche tra le mura di un manicomio e, ancora una volta, si adatterà, per poi venire sradicato nuovamente e tornare nel paese natale, dove però sarà semplicemente tacciato da tutti come il "matto".
Se già la trama è qualcosa di inusuale e decisamente denso di avvenimenti, a colpire ancora maggiormente è la ricerca stilistica e linguistica dell'autore. Remo Rapino sceglie per il suo protagonista un linguaggio (fintamente) mimetico, che attinge liberamente dal lessico di tanti dialetti del Sud Italia, con alcuni settentrionalismi ereditati a suon di spostamenti. Un lungo, incessante monologo interiore - che talvolta è facile confondere con un flusso di coscienza - si dipana senza particolare uso della punteggiatura, lasciando invece fluire il pensiero di Liborio, che più volte torna su echi del passato, che risuonano come un refrain. Non si può perdere neanche una parola, dunque, per seguire i pensieri del protagonista (vi consiglio di leggere il romanzo quando potrete dedicarvici totalmente!). Le frasi sgrammaticate, piene di ridondanze pronominali, neologismi e calchi, iterazioni ora enfatiche ora quasi interiettive inizialmente hanno suscitato in me stupore, ma anche sgomento. Poi, ci si abitua al linguaggio di Liborio, senza più avvertire il bisogno di ricorrere al glossario che chiude il libro. E cresce l'ammirazione per come Remo Rapino sia riuscito a costruire un idioma attorno al mondo del suo protagonista, un idioma che talvolta è avvoltolato sulla tradizione dialettale, e talaltra si apre al nuovo. E, quel che è più incredibile, Rapino è riuscito a dissimulare l'operazione di creazione, rendendo tutto verosimile, calato ad hoc sul suo personaggio. Un esperimento davvero interessante, che ha in sé qualcosa dei grandi autori che hanno osato omaggiare la lingua reinventandola.
GMGhioni
IL LIBRO HA VINTO IL PREMIO CAMPIELLO 2020 IN DATA 05/09/2020