I Cariolanti
di Sacha Naspini
edizioni e/o, 2020
pp. 175
€ 16,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
I Cariolanti sono le ombre che si portano via i bambini cattivi, quelli che non mangiano tutto o che disobbediscono a mamma e papà. I Cariolanti trascinano il loro carretto con gli arti lunghissimi e le dita adunche, pronti a ghermire gli indisciplinati. I Cariolanti sono soprattutto gli uomini neri che si aggirano sopra la tana, di notte, in cerca dei disertori. Ma Bastiano e i suoi genitori sono nascosti bene, nel cunicolo scavato dal babbo per sfuggire alla guerra che chiama forte, e pretende. Il bambino cresce nel buio, nella terra e nella polvere, nel silenzio quasi assoluto. Quello in cui si trova viene chiamato indifferentemente “buco”, “tana”, o “fossa”, e in qualche modo determina la sua vita, la costringe a uno stato che rasenta l’animalità, ridefinendo l’individuo in base ai suoi bisogni essenziali e negando tutti i valori validi nel mondo della superficie.
Il segno lasciato dal buco si ritrova, come un marchio indelebile, anche nei successivi spaccati di vita descritti nei vari capitoli, in cui quasi sempre il narratore interno si rivolge a un tu, che non è mai quello che ci si aspetta e che consente di mettere in evidenza il rapporto quasi disumano, straniante e ammantato di una violenza vissuta come elemento del tutto naturale, che Bastiano ha con l’alterità, in qualunque forma si presenti (“intanto che aspetto di ammazzarti ti racconto l’ultima storia, questa di oggi giuro che è fenomenale”, p. 24).
In qualche modo, quel che emerge da una prosa dura, essenziale, che punta dritto allo stomaco del lettore, è che la realtà dell’uomo finisce per essere più barbara e bestiale di quella animale, a cui il protagonista si sente più affine – la scrofa che non conosce cattiveria e pure deve essere uccisa, i cani che sono disposti a sbranarsi reciprocamente per un po’ di cibo, ma che gli sono fedeli in nome di una mutua alleanza; i cinghiali che lui sfida nella foresta e sente vicini (“quando alla fine se ne vanno mi sento tipo mezzo animale anch’io. Tipo che ora anch’io faccio parte di quella famiglia dove nessuno ti spacca il naso per un pezzo di formaggio”, p. 39).
Cresciuto non tanto nel bosco, ma sotto il bosco, il ragazzino, per chi lo osserva, “ha i modi di un animale selvatico”; è bello, ma schivo, non rivolge la parola a nessuno, e la gente si convince che non abbia “tutti i venerdì al posto giusto” (p. 49). Solo Sara, a cui a un tratto viene concessa la parola per fornire, attraverso le pagine del suo diario, una visione esterna sul personaggio principale, la pensa diversamente. Lei crede in questo ragazzo dagli occhi verdi e se ne innamora. Sara, con la sua gamba zoppa, rappresenta l’innocenza del mondo. Ma Bastiano non conosce delicatezza, perché nessuno gliel’ha mai insegnata. Anche la madre si fa per lui cattiva maestra, maestra di un amore deviato. L’intero volume, che procede spietato, amaro, sembra rispondere a un’unica domanda: per chi è nato e ha vissuto male non c’è speranza di conformarsi alle regole e alle aspettative della società. Eppure qualcosa Bastiano riesce a fare, con le sue proprie forze, anche se quasi incidentalmente (da padron Matteo impara a lavorare il legno, in carcere a leggere e scrivere – trovando nelle avventure altrui una forma di evasione dalla propria vita misera). Il problema è che l’uomo non basta a se stesso, soprattutto quando si mette di mezzo la Storia – la miseria del dopoguerra, lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, come la prima combattuta solo da poveretti. A più riprese Bastiano rimpiange la gattabuia, dove almeno era al sicuro e nutrito e i libri “mi bastavano per farmi pensare di essere uscito fuori lo stesso, almeno per un po’”. Lì “il mondo era solo come lo immaginavo io, mica tutte queste stragi che poi magari uno si danna l’anima per davvero, anche senza volerlo, per salvarsi la pelle” (p. 112). Anche nella guerra, il giovane si ritrova soltanto quando può tornare nel suo ambiente, dopo la rotta che segue l’armistizio:
Sapete, io me la cavo abbastanza se si tratta di boschi. Tipo che è un po’ la casa che mi sento addosso. Sicché, dopo quattro anni passati al chiuso e qualche mese da soldato a ringraziare la Madonna per non avermi fatto saltare il cervello con l’elmetto e tutto, mi sono ritrovato da solo nell’ambiente mio. [...] Nei boschi comando io, anche se questi sono duri per davvero che gli alberi crescono nella pietra e non trovi una radice da mettere sotto i denti a pagarla oro. (p. 106)
Quello di Bastiano resta uno sguardo ingenuo, straniato, lo sguardo di chi non capisce appieno le dinamiche del mondo perché non ha gli strumenti per decifrarle. Dall’esterno, lui appare come un “mostro”, una creatura incomprensibile e a stento umana, ma una volta che il lettore si lascia assorbire dal flusso dei suoi pensieri ne coglie la logica, per quanto distorta. Una logica egoistica, ferina, di sopravvivenza, una logica dei bisogni primari, una logica della necessità immediata. La logica che gli consente di persistere anche in mezzo a realtà schiettamente ostili, o percepite come tali. La tana diventa destino, cappio al collo da cui non ci si può liberare. La ferocia si fa legge, non c’è nulla e nessuno che non possa essere sacrificato all’occorrenza, e senza rimpianto. Se uno “nasce di traverso”, sembra dire Naspini, non c’è verso di raddrizzare le cose, la vita. E I Cariolanti, che sono proiezione del male, ma con cui la famiglia stessa del protagonista finisce per identificarsi, tanto da assumerne il nome, diventano ad un tempo punto di partenza ma anche d’arrivo per chi è cresciuto nella loro ombra. Il romanzo di Sacha Naspini non piacerà a molti, per la claustrofobia che genera, per il senso di ineluttabilità, per la durezza di certi dettagli. Eppure è un testo che va letto, che va interrogato per interrogarsi a propria volta.
Carolina Pernigo