di Fabio Bartolomei
edizioni e/o, 2020
pp. 104
€ 9,00 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
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Vera ha trentasei anni, ma non era pronta a perdere i suoi genitori. Pur essendo andata via da casa molto giovane, infatti, era ben lontana dall’essere diventata indipendente e adesso si aggira come un fantasma nella casa in cui è cresciuta, vuota lei – come la casa stessa – dei rituali rassicuranti, dei rumori consueti, della presenza consolatoria delle persone amate. Dentro le mura domestiche non regge più la maschera di sicurezza che ha indossato davanti alle manifestazioni di interesse, per lo più superficiali, se non del tutto ipocrite, ricevute dai conoscenti nei giorni precedenti:
“Vera, come stai?”.
Prova a indovinare, idiota.
“Meglio, grazie”.
“Immagino cosa stai passando”.
Ha la mia età, non ha perso neanche un nonno e c’ha un labrador che quest’anno ne fa sedici, però lo immagina. Se non è talento questo. (p. 13)
Finalmente sola, la donna si prepara all’arrivo della “mazzata” troppo a lungo dilazionata e, quando la sente venire, col suo carico di rimpianti e rimorsi, si abbandona al dolore e a più riprese invoca i genitori perché tornino da lei. Quello che non può immaginare, è che loro effettivamente lo facciano. L’appello della figlia agisce nel testo come un richiamo irresistibile per una madre e un padre amorevoli, che hanno dedicato a lei la loro vita e, di fronte al suo grido di dolore, semplicemente si presentano perché lei ne ha bisogno.
La forza di questo breve romanzo di Fabio Bartolomei risiede proprio in questo presentare un fatto incongruo come se fosse del tutto ovvio e naturale. Vera si sveglia la mattina e trova mamma e papà impegnati nelle occupazioni mattutine abituali. Non si tratta di spettri inquietanti, ma di figure in carne e ossa, caratterialmente immutate e perfettamente coscienti della propria recente dipartita. Abilissimo a trasfigurare il dramma attraverso quell’ironia che costituisce il fondamento della sua prosa, Bartolomei ci mostra con grande realismo la sua protagonista sconvolta di fronte all’impossibile, pronta a vagliare tutte le ipotesi: i due non possono essere santi, perché sono resuscitati al quarto giorno e non al terzo; il suo non è un potere straordinario, perché non è replicabile con le piante di rosmarino altrettanto defunte; dal momento che non si capisce cosa abbia innescato l’evento, bisogna ben guardarsi da tutto ciò che potrebbe rendere reversibile il ritorno dei cari estinti: “a parte il fatto che sto impazzendo, sono troppo felice, non mi sognerei mai di fare qualcosa che possa mandare in vacca questo miracolo” (p. 29). Il tempo inaspettatamente guadagnato offre l’occasione unica di ricreare una quotidianità che si credeva perduta, di apprezzare nuovamente – e con nuova intensità – il sarcasmo pungente della mamma, l’affettuosa premura del papà. Anche se questo è difficilmente compatibile con la vita che fuori dall’appartamento procede e che invece, al suo interno, si cristallizza in uno stato di sospensione. Anche se questo trattiene i due redivivi ancorati a un mondo a cui non appartengono più, ristretti e in qualche modo limitati al loro ruolo di genitori (non più di coppia, non più di professionisti, non più di persone con gusti e passioni individuali). Mentre i due trascorrono e impostano le giornate – e poi le settimane, e i mesi – esclusivamente in funzione di lei e delle sue necessità, con effetti che talora oscillano tra il grottesco e il tragicomico, Vera inizia a prendere coscienza del proprio egoismo di figlia, e anche, seppur con difficoltà, della necessità di lasciar andare.
Morti ma senza esagerare inaugura una quadrilogia di romanzi brevi dedicata al tema della famiglia e si presenta al lettore come un testo compatto, profondo, perfettamente bilanciato. Bartolomei ritorna sulla scena con la grazia che accompagna sempre la sua visione del mondo, che è poi il motivo principale per cui un po’ alla volta sto correndo a recuperare tutte le sue pubblicazioni passate (per adesso trovate recensite Giulia 1300 e altri miracoli qui e L’ultima volta che siamo stati bambini qui). Dietro al fraseggio lieve, ai continui lampi di positività che illuminano la prosa, la sua è un’indagine che non fa sconti su cosa significhi essere figli in età adulta, su come i rapporti con i genitori evolvano nel tempo, ma anche sui temi della perdita (alla quale non si è mai preparati) e della presa di coscienza del lascito, dell’eredità famigliare, che ognuno porta con sé anche nel momento del distacco definitivo. Al tempo stesso, però, il romanzo trascina il lettore all’interno di una storia che avvince e fa sorridere, creando dei personaggi talmente concreti, talmente credibili nel loro spessore umano, che sembrerà assolutamente logico prendere per veri i fatti che li coinvolgono, trascendendo facilmente la dimensione dell’assurdo che è alla base della narrazione. Se il breve volume che esce oggi per e/o è solo la prima tappa di un percorso di cui attendiamo con trepidazione gli sviluppi, si presenta però già di per sé compiuto, in grado di rispondere a diverse domande che chiunque sia (o sia stato) figlio, o padre, o madre, inevitabilmente si pone.
Carolina Pernigo