Che cosa significa riportare in vita un autore attraverso una biografia? Alessandro Raveggi, insegnante di letteratura alla New York University, già autore di poesie, racconti e di un romanzo, è una voce molto presente nelle pagine di cultura (ricordiamo almeno le collaborazioni con «Wired» ed «Esquire»). Nel suo nuovo libro, Grande Karma. Vite di Carlo Coccioli, appena uscito per Bompiani, Raveggi decide di ridare voce a Carlo Coccioli, un grande intellettuale del Novecento, che è stato però emarginato dal panorama letterario in Italia, mentre è stato molto amato all'estero. Per che cosa lo ricordiamo? È stato per tutta la vita uno sperimentatore di generi e di stili letterari, ha scritto in tre lingue diverse, è stato partigiano e ha contribuito alla creazione degli Alcolisti Anonimi in Italia, per dire solo alcune piccole tappe della sua esistenza decisamente burrascosa. Benché finalista al Campiello, Coccioli non ha avuto la fortuna editoriale, di critica e di pubblico che invece ha potuto raccogliere all'estero. Di recente, in occasione dei cento anni dalla nascita, si sta assistendo a un meritevole recupero della sua figura, che con tutta la sua originalità e il coraggio di essere irregolare ci rende Coccioli decisamente interessante anche come uomo e non solo come scrittore e intellettuale.
In attesa della nostra recensione su Grande Karma, la casa editrice Bompiani - che ringraziamo - ci ha permesso di farvi assaggiare l'opera di Alessandro Raveggi per intuire l'originalità di Coccioli con un passo tratto dal romanzo, intitolato "La pista dei cani".
Buona lettura!
Buona lettura!
Guido indolente da un’ora sull’autostrada in direzione città di Querétaro: sto aspettando di vedere un cane morto sulla carreggiata. Se avrà fortuna, lo scanserò. Altrimenti, in qualche modo, l’interrogherò. Il sole taglia il paesaggio in due copie esatte, una fatta di cielo brumoso, e l’altra di asfalto misto a polvere. Mi aspetto di vedere una carcassa di cane a ogni ciglio di strada, ma questo non definisce il mio stato come euforico, né come introspettivo. Seguo freddamente la pista dei cani, che è una pista smaccata tra gli indizi che mi ha lasciato Carlo. Sono alla ricerca del suo ex assistente Javier. Vago, come digerendo il tragitto, fermandomi ai punti di ristoro che si trovano vicino ai paesini sporti sull’autostrada. Stando attento a non falciare anche i campesinos, che ancor più rapidi di me scavalcano i guardrail bassissimi, violati da animali di ogni taglia, per raggiungere i loro campi da coltivare: sacco di patate o d’utensili in spalla, berretto da baseball piazzato sul naso adunco, aztechi contemporanei.
Javier, dove ti sei cacciato? E i tuoi cani randagi non si vedono, Javier.
Polli, volpette, roditori del deserto splattati sull’asfalto, in gran copia, ma i cani non si vedono.
Pare quasi che siano volati via, puff.
“Come fossero angeli… creature libratesi tra cielo e terra… innocenti e còlti in tutta la loro sofferenza,” avrebbe detto Carlo, se fosse stato ancora vivo. Poveri Cristi.
“Angeli volati via, puff. Da questo Kaliyuga, da questo mondo ingarbugliato,” avrebbe aggiunto lo scrittore, indossata la sua veste arancione da Hare Krishna.
“Poche purezze… in questo mondo infame, eguagliano quella dei mansueti e soavi occhi di un animale morente…” continuerebbe poi, facendo il verso a uno dei suoi libri più riusciti. Il Requiem per un cane, dedicato a un suo cane defunto, alle memorie che sgorgano sconsolate dalla loro relazione di fedeltà e connubio spirituale.
“Stai attento però a non falcidiarli, madonna santa!” urlerebbe ora invece, per via del suo animismo spassionato, svelando un accento fiorentino. Si riferirebbe a tutta l’animalità che, vista da dentro questo abitacolo di vettura a noleggio, mi circonda, pullula: le formiche, gli scorpioni, i vermetti, le bisce, i lombrichini che le mie ruote stanno facendo scoppiare in mille pezzi sfrigolanti. Nessun connubio spirituale, il mio.
“Voi animali, cari miei, non siete stati avvelenati dal frutto dell’Albero Proibito…”
La faccia di Carlo Coccioli, che mi si presenta davanti ogni poco come un miraggio nell’aria torrida del Messico. Le lacrime agli occhi sotto gli occhialoni dalle ampie lenti, che le rifraggono come fossero sconfinati laghi.
La strada che percorro è dominata dall’arsura e dal brullo paesaggio color caffè chiaro del Messico di provincia. A tratti mi ricorda certi entroterra sardi. Il sole adesso si spande ovunque, come una glassa riflessa dai pochi acquitrini disponibili. Il cielo che lo sostiene è più vasto, un cielo americano. Pressoché da una settimana è finita la stagione delle piogge, e forse si avvicina il periodo più luminoso dell’anno, quando, usciti dalla Capitale messicana, la pelle si brucia e i colori tipici di queste zone, i colori delle case, che sono quelli dell’artigianato – quelli delle stoffe dei mercati, e quelli della frutta e delle salse sul pollo e sulle tortillas, e dei giocattoli venduti ai semafori dai venditori poverissimi –, si stagliano e si amalgamano assieme, con l’arrivo dell’inverno.
Un tempo sospeso, terribilmente splendente, qui.
Sono convinto che Javier, l’ultimo assistente di Carlo, abbia salvato molti cani, in questa stagione tersa. E anche con un tempo peggiore, sotto le piogge estive messicane che ora, con l’autunno, sono finalmente finite – strane asimmetrie dei paesi tropicali. Sono convinto di questo perché l’ho sentito molto indaffarato, distratto, brusco al telefono. Sino al momento in cui ha praticamente interrotto le nostre comunicazioni, già di per sé precarie. La voce registrata mi annunciava algida come il suo numero di cellulare fosse improvvisamente… inesistente. Inesistente?
Mi era preso il dubbio che Javier stesso fosse come un fantasma, ectoplasmatico, inconsistente.
“Javier, mi senti, eh?”
“Ahorita no puedo, querido. Hablamos luego…” e poi più niente.
Luego, lui mi ha rimandato a “luego”: che qui significa, ho imparato a mie spese, tra due minuti, nella prossima vita, forse davvero mai. Hasta luego, che ha il senso di un “ci vediamo all’Inferno”.
Me lo vedo ora, l’Inesistente Assistente Indio Javier, al suo tavolo operatorio improvvisato e clandestino, ignaro del fatto che io lo stia davvero cercando. Sta fasciando la zampa insanguinata a un labrador, sta dando a uno schnauzer l’iniezione letale che gli eviterà una morte di cupe sofferenze, assopendolo in un mare lattiginoso di divinità e di non-essere (Coccioli che mi parla in testa, ancora).
Intanto mi fermo, parcheggio, mi sgranchisco le gambe un po’ gonfie per la monotonia del viaggio.
Entro in un punto ristoro, un diner in stile trasandato messicano. Su muri e pavimenti le ombre colorate di certe plastiche rossastre, sui tavoli brocche che contengono acque zuccherate al tamarindo, all’anguria. L’odore nell’ambiente è quello delle enfrijoladas messe nella vetrinetta a irrancidire. Ho imparato a riconoscerlo dopo questi mesi inerziali, raccogliendo a fatica i cocci sparsi di una vita: la vita di Carlo Coccioli.
Chiedo alla signora al banco una Tecate in lattina, birra di poche pretese, da sportivi e fanatici di football americano, da El Paso in su.
“Quanto dista il ranch de la Favorita, señora?” domando a lei, la barista, la sua faccia da navajo, gli occhi bassi e incuneati, da bisonte, il seno inesistente, da ricercare con cura.
“Ancora quince…” ragiona, “quindici chilometri… poi deve prendere a destra la piccola carretera de Santa Maria Xolotz,” e mi sbatte in faccia un nome nahuatl, che faccio fatica a pronunciare, per le ics e le numerose zeta, come mi si frantumassero in gola in pezzetti acuminati.
Festeggio comunque, con un altro sorso di birra Tecate poco buona: sono riuscito a fuggire dalla Capitale, come volevo. Non è impresa facile neppure quella.
Soprattutto sono fuggito dagli spettri di una casa apparentemente innocua, pacchiana e antiquata. La Casa Museo di Carlo Coccioli, piena di fantasmi, come fosse architettata apposta.
Calle Obrero Mundial.
Andate al numero 165, se non è chiusa, o già smantellata.
E forse io mi trovo ancora là, sequestrato da alcuni esaltati che delirano di Dio come loro mandante. E questo è tutto un mio parlarmi addosso. Sto raccontando la mia vicenda solo per salvarmi la vita.
Dopo mesi magneticamente persi in Messico – cosa alquanto facile, qui, perdere un tempo fatto di passi che paiono all’indietro, coincidenze e nicotina altrui, dialoghi sghembi col mescal… –, adesso mi sono deciso a seguirne una che sia una, mi son detto, di pista! – e dovrei dirlo con le maiuscole, La Pista dei Cani, e farebbe certo piacere a Carlo che mi invasassi un po’ anche io.
Quasi che i romanzi di Carlo Coccioli me l’avessero fornita da sempre una pista, zampa dopo zampa sul fango, o nascosta nel pelo dei suoi stessi cani, scritta in un balletto di pulci: “Segui i cani, tutti i cani che trovi nei miei libri, e arriverai a Javier. E con un po’ di fortuna, anche al Grande karma, lo scopo finale di questo tuo viaggio,” mi sussurra all’orecchio Carlo, ancora una volta.
Dovrei così seguirli: Fiorino, Fiorello, Oliver, Benjamin, il primissimo cane Gec, i mille cani dei suoi personaggi e dei suoi libri, lo spinone Maximus, il maltesino Minimus del romanzo stranissimo e irrequieto Le case del lago, e tutti gli altri canidi che uno incontra nelle sue storie. Ognuno con le proprie debolezze e virtù, ognuno che muore e poi rinasce angelo, volando via, grattandosi le pulci sotto le orecchie, o meglio sotto le ali. Sono di fronte a una strana cabala di nomi di cani angelici per svelare poi quell’enigma, il libro che forse nemmeno esiste: quello che Carlo chiama il Grande Libro, o appunto: Grande karma. L’ultimo testo inedito e introvabile dell’altrettanto introvabile scrittore Carlo Coccioli, avrebbero titolato qualche anno fa, a riguardo di quel faldone.
Lo immagino a volte come una scatola vuota, da prestigiatore. Dove infili prima la mano, poi il braccio, quindi tutto il corpo.
E così scompari.
(pp. 13-18)
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