L’esercizio
di Claudia Petrucci
La Nave di Teseo, 2020
pp. 333
€ 17,10 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Per parlare dell’Esercizio, il libro d’esordio di Claudia Petrucci per La Nave di Teseo, ci si rimbocca le maniche, ci si raccoglie i capelli in una coda: la storia cammina sul filo sottile tra teatro e letteratura con la lucidità sorprendente di un acrobata navigato, affrontando tematiche accessibili a diversi livelli di comprensione.
A Milano, quartiere Lambrate, i giovani Giorgia e Filippo vivono insieme tentando disperatamente di non soffocare nell’insoddisfazione, si raccontano di non aver perso di vista i loro sogni – una vita senza dolore connaturato e misterioso per lei, una lunga carriera da giornalista per lui – sulla strada dei quali si sono frapposti da qualche tempo un lavoro al supermercato e la gestione del bar di famiglia. Si raccontano che è solo una parentesi, eppure «Il volere e il non potere diventano gli assi di rotazione della [loro] vita». Almeno fino alla comparsa di Mauro, l’ex maestro di recitazione di lei.
Farsi abitare
«Fa spavento: è come se qualcuno si fosse intrufolato dentro la sua pelle, andando a riempire il vuoto dietro gli occhi, riportando il suo corpo in vita».
Giorgia si risveglia dal torpore delle settimane dietro la cassa dell’Esselunga quando Mauro la invita a tornare a recitare. Qualche anno prima qualcosa l’aveva fatta allontanare dalla compagnia, ma l’atteggiamento nei confronti di quella scelta è passivo, arrendevole, quasi che sia stata pedina e vittima della sua stessa vita. Non senza paura per un passato che poi a tutti gli effetti le si ripropone in un rigurgito, la ragazza si lascia condurre sul palco: lì smette i panni di se stessa e in un potente processo di disgregazione dell’io lascia spazio al personaggio che da copione è chiamata a interpretare. Si annulla. Si fa letteralmente occupare da una storia che non è sua ma che sua diventa, non soltanto nelle parole e nel tono di voce, ma anche e soprattutto nel linguaggio non verbale e nella psicologia, nello sguardo, nei ricordi.
È un modo di vivere la scena sincero, generoso e brutale, quello di sfilarsi dalla propria pelle per accogliervi un altro vissuto e lasciarlo totalmente libero di muoversi; un modo che molti suoi colleghi invidiano e ammirano, che il maestro ama immensamente, che a Filippo fa tremare i polsi ma di cui d’altra parte lei è vittima – lo chiama «Il mio problema empatico con le persone». A ben vedere, è anche la stessa dinamica che si dà ogniqualvolta ci si accinge alla lettura, e allora Giorgia è un lettore umile e realmente disposto all’ascolto, che dalla storia si fa abitare e dunque cambiare – non necessariamente in positivo. Infatti, fatta tabula rasa di sé, delle proprie idiosincrasie, del proprio modo di reagire alla vita, il lettore inizialmente si presta e poi totalmente si fa incarnazione e ostaggio di una vita parallela alla reale, tanto nella dimensione spazio-temporale quanto in quella psicologico-affettiva. Il suo è un movimento solo al principio attivo – nella scelta di spazio e tempo, alla Se una notte d’inverno un viaggiatore; nella volontà di riavvicinarsi al palcoscenico – perché una volta immerso nel testo si trova improvvisamente defraudato del proprio potere decisionale: si fa abitare dall’uno o dall’altro personaggio senza che vi sia possibilità di scelta, ma al contrario assecondando un silenzioso quanto profondo richiamo empatico; così abbandona le categorie mentali che lo porterebbero a reagire agli eventi a modo suo per abbracciare quelle del personaggio, facendosi espressione di una diversa cifra di pensiero e di comportamento.
Tornando alla storia, il percepito è qualcosa di molto vicino alla pazzia – gli spettatori ne sono affascinati e intimoriti, ammirati e respinti – e il referto clinico parla di una patologia già in qualche modo annunciata: schizofrenia paranoide. Ciò che rimane, alla fine di un annientamento di tale portata, è difficile da spiegare. Di certo, a terra, tra i vestiti di scena, uno spesso velo di spaesamento. È dovuto alla perdita di una parentesi che Giorgia (e il lettore) ha creduto di vedere esplosa nella realtà e che invece, calato il sipario (e voltata l’ultima pagina) si è chiusa; è dovuto all’immediata presa di consapevolezza di non esistere più nel modo in cui era prima – prima di riempirsi del vissuto di cui non aveva mai fatto esperienza – perché nel momento in cui si è fatta da parte ha accettato di accogliere uno strato umano inedito, che si depositerà fino a diventare sua materia organica: ha ammesso, insomma, di voler evolvere nella direzione della complessità e dunque di essere in continuo movimento, mai uguale a se stessa, mai riconoscibile. E, in questo senso, molto distante da Filippo e dalla vita sospesa con lui.
Abitare
«Mi vedo comparire nei suoi occhi, mi rimette insieme con il sorriso che mi rivolge. Ho di nuovo tutto addosso, il mio nome, la mia identità, un posto da cui provengo».
E Filippo è invece un personaggio straripante nel suo bisogno di abitare. Quando Giorgia trascolora nel personaggio fino a scomparire, e ancora prima, già alle prime impercettibili avvisaglie di disgregamento, è lui il primo a sentirsi fuori posto: scrive Petrucci che «Non [sa] più collocar[si]», «Inizi[a] a cercare Giorgia anche dove non c’è, nei pomeriggi prima di incontrarla, nelle scuole superiori. La cerc[a] in [sé] prima che in lei».
Non è unicamente una questione di cuore. Non di nostalgia, di paura di quell’identità che ha rubato loro la vita di coppia e che si è decisa a sostare nei panni di lei fino a data da destinarsi; non di disagio di fronte a un dissolvimento senza sbavature. È soprattutto una questione personale: per quanto possa sforzarsi di volerle sinceramente bene, vuole prima di tutto che lei non travalichi i confini del suo schema, che interpreti il copione che inconsapevolmente le detta ogni giorno. Quando non può più farlo, se ne rende conto: di quanto la stesse abitando, di quanto lei fosse uno dei suoi prolungamenti, alla stregua di un arto; rendendosene conto, soffre enormemente dell’amputazione. Nel suo ingenuo egoismo imbevuto d’amore non solo non può più controllarla, e quindi controllare se stesso, ma non può più nemmeno continuare a crogiolarsi in quell’immobilità che ha sempre solo fatto finta di subire, e nella quale d’altronde Giorgia stava soffocando.
Su consiglio di Mauro, e grazie alle sue indicazioni, Filippo scrive un copione che ha come protagonista Giorgia e lo fa con l’intento di leggerlo alle spoglie che in clinica rimangono di lei. È uno stratagemma che ancora fa tornare all’arto fantasma e in particolare alla terapia allo specchio, uno dei trattamenti più utilizzati per curare il dolore – con l’aiuto di una serie di specchi il paziente vede riflettersi l’arto sano nello spazio vuoto dell’arto amputato – e in effetti “l’esercizio” in prima battuta non è altro che questo, fare in modo di tenere il ricordo di Giorgia vivo per non lasciarla svanire; poi, però, si carica della speranza che nella lettura ad alta voce lei si riconosca, e torni a interpretare il suo ruolo.
È qui che si genera il parallelo che fa da controparte a quello attore-lettore: quello sceneggiatore-scrittore. Filippo è infatti, a differenza di Giorgia, agente, e a tutti gli effetti sceneggiatore di lei e della vita con lei, oltre che voce narrante del libro. Come uno scrittore vive il panico da pagina bianca, l’ansia da prestazione, lavora meglio se obbligato entro determinati spazi e tempi; ancora, vede i propri personaggi girare per casa, rivive con loro le scene come se fossero vita vera e il piano della finzione si annoda in modo inestricabile con quello della realtà. Una realtà che dunque non è mai veramente autentica: non per Giorgia, che a causa di una crepa nella sua mente è costretta a recitare un’unica scena senza fine; non per lui, che invece convive col fardello di essere il burattinaio della sua compagna di vita. La felicità di vederla tornare nei suoi panni è la giustificazione che si dà in risposta all’eventualità di manipolarla a suo piacimento, di selezionarne i ricordi, i traumi, le caratteristiche positive e negative per riscriverla e renderla la versione migliore di se stessa – forse, però, ciò che non riesce a giustificare è la gioia non solo di tornare ad abitarla, ma addirittura di prendere a progettarla come non ha mai avuto occasione di fare, e come del resto chiunque accetterebbe di fare.