La Macchina si ferma e altri racconti
di Edward Morgan Forster
Mondadori, giugno 2020
Traduzione e curatela di Massimo Scorsone
pp. 216
€ 13,00 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
Quando si tratta di autori forti del canone letterario, quelli di cui almeno un romanzo si trova sempre nei manuali delle scuole superiori, ritrovarsi tra le mani una raccolta di racconti è un’esperienza quantomai sfidante. Richiede uno sforzo attivo nell’abbandonare i propri preconcetti, richiede un impegno nel trarre convintamente piacere dalla lettura. Solo così il racconto può aprirsi a noi come un luogo di immaginazione facilitato, dove l’architettura formale non pesa come nella struttura del romanzo, e i personaggi nascono e muoiono con leggiadria nello spazio di poche pagine. Un vero e proprio sfrenamento, un’apertura a una fantasia che solo nella forma del racconto si può mostrare nella sua forma più concentrata, più ludica.
Il fascino di questi sette racconti, forse, sta proprio nel loro vivere il fantastico in forme estremamente autoconsapevoli. Virginia Woolf ne parlò dicendo che “la propensione alla stravaganza si affranca dalla greve soma che suole opprimerla nei romanzi”, ma anche che “ci si accorge subito del suo [di Forster] imbarazzo di scolaretto che ha scantonato nel paese delle fate”. Leggendoli, ci si sente un po’ come invitati nella bellissima casa di un ospite non pienamente a suo agio. Eppure poter osservare i processi fantastici di uno scrittore del calibro di Forster da dentro, in modo così consapevole per lui, è un assoluto privilegio, oltre che una lettura deliziosa. Riusciamo così fin da subito a operare una macrodistinzione impressionistica tra i processi di strutturazione dei racconti. Ci sono i racconti in cui il fantastico è concepito come l’elemento di rottura che fa entrare aria nella più triviale normalità borghese, dalle preoccupazioni opprimenti, come in Addio a Colono, La storia di un panico, Omnibus per il cielo e Altro Regno; e poi ci sono i racconti che prendono quella normalità, la riducono all’ossatura psicologica e sociale, e poi la capovolgono con violenza, creando visioni allegoriche come in Di là dalla siepe, o potenti distopie come nel racconto La Macchina si ferma, che dà il titolo alla raccolta, e che meriterà un’attenzione particolare.
Ma andiamo con ordine. Il racconto che apre la raccolta, Addio a Colono, immerge il protagonista, Mr. Lucas, un uomo sul limitare della vecchiaia, nella natura della Grecia rurale, così diversa dal panorama antropizzato della sua nativa Inghilterra. È già da qui chiaro uno dei temi cardine dell’intera raccolta, l’opposizione tra natura e cultura, tanto più polarizzata in quanto i due termini del binomio sono la rigida cultura inglese del progresso e della tecnologia, che Forster anche altrove critica più o meno velatamente, e la natura selvaggia, spesso localizzata in luoghi i cui abitanti sono oggetto di aspre critiche da parte di quei personaggi di contorno che si dimostrano i portatori più convinti di questa forte e salda cultura razionalistica, vale a dire la Grecia in questo racconto e l’Italia in La storia di un panico. Personaggi estremizzati, che non riescono a guadagnarsi il favore dei lettori, il cui ruolo sarà proprio quello di interrompere l’esperienza di fantastico che seduce i protagonisti di questi due racconti. La figlia di Mr. Lucas, concreta e fattiva nel suo occuparsi dell’anziano padre, lo trascinerà via dalla fattoria greca dove lui aveva deciso di restare, sentendo forse un richiamo della morte che potesse liberarlo di ogni fardello terreno, comprendente non solo le sue incombenze legate alla sua vita in Inghilterra ma finanche il suo stesso corpo, ormai invecchiato. Lo stesso schema ritroviamo in La storia di un panico, dove vediamo un ragazzo, Eustace, cambiare radicalmente in seguito a qualche misteriosa forza manifestatasi in un bosco, forza che il suo insegnante, il curato Mr. Sandbach, si affretterà a spiegare come un’”apparizione demoniaca”, secondo i termini familiari della religione, rendendo così il fatto non solo logico ma anche moralmente connotabile in termini di bene e male. Tuttavia spiegare quanto è successo, e il conseguente comportamento di Eustace, che da quel momento rifugge gli spazi chiusi e la compagnia degli uomini, e cerca energicamente la libertà della natura, non è così facile; tanto più che il narratore di La storia di un panico, con tutte le sue chiacchiere sull’importanza dello sviluppo fisico e della solida educazione inglese, e guidando il partito degli adulti che cerca di mettere il ragazzo sotto chiave, ci terrà ostinatamente nascosto non solo il futuro del protagonista, quella “carriera” che avrebbe avuto inizio in quel giorno fatale (artista? Scrittore?) ma anche il senso della trasformazione di Eustace, che gli viene spiegato da un ragazzino italiano, Gennaro, e che il narratore non ci riporta, declassando la spiegazione con un’ellissi a “una quantità di osservazioni del tutto incoerenti”, e condannando noi lettori a restare inchiodati alla sua stessa ottusità di adulto perbene, sulla soglia del mistero.
Forse la carriera di Eustace è l’arte? Chi lo sa. Di certo l’arte da sola per Forster non basta a scardinare le porte della razionalità per far entrare il fantastico; arte da vivere e non da fruire, come riesce a fare il ragazzino protagonista di Omnibus per il cielo. Un ragazzino anonimo, che soffre tremendamente per la brama di qualcosa di più, che lui stesso, seguendo il sistema morale inculcatogli dai suoi concreti genitori suburbani, definisce “sciocco”. Ma questa brama sarà soddisfatta, grazie a un omnibus che lo porta in una sorta di Empireo dei grandi autori e personaggi della letteratura, in un turbine di meravigliose scene in cui i personaggi dickensiani vengono riconosciuti dalla voce, resa concreta e cara dalle riletture che il ragazzo aveva compiuto, consumando le pagine dei romanzi per farne uscire il suono, e in cui Achille viene approcciato come un affettuoso amico di vecchia data. Così anche la letteratura latina per Evelyn, protagonista di Altro Regno, una sorta di ninfa dei boschi malcelata da angelo del focolare, che si dedica allo studio di Virgilio e delle sue Bucoliche (opera scelta tutt’altro che a caso) nonostante ciò sia completamente inutile agli occhi del suo promesso sposo, che l’ha trovata in una fattoria in Irlanda e l’ha portata nella sua villa in campagna per farne sua moglie. Se la religione è un modo troppo facile per spiegare l’inspiegabile, l’arte per Forster è invece l’accettazione dell’inspiegabile, del fantastico; nella polarizzazione tra natura e cultura si pone ostinatamente dalla parte della natura, ne è un prolungamento, una celebrazione, una messa in versi.
Dopo questa entrata in punta di piedi nel mondo del fantastico, della natura, dell’irrazionale e dell’arte, gettiamoci dunque nelle visioni più sfrenate di Forster. In Di là della strada abbiamo un’allegoria della logica del perfezionamento infinito e del progresso senza fine che ci svela ancora una volta che quel pensiero materialistico e iperrazionalistico non è niente più di una sciocchezza fine a sé stessa, visualizzata come un percorrere una strada sempre uguale, che parte e termina con un giardino delle delizie in cui tutti vivono in pace, ma che è tremendamente difficile da accettare per chi vive seguendo le logiche del sorpasso, della competizione, del progresso, qui visualizzato secondo la sua radice etimologica come una vera e propria camminata verso avanti, in quella strada in cui chi si ferma è perduto, ma che in realtà riporta al punto di partenza, che altro non è se non la semplice, semplicissima felicità degli anziani e dei bambini. E infine, in La Macchina si ferma, arriviamo al parossismo di una vita ridotta al necessario, al fisico, in cui la natura è andata perduta, e la vita umana si muove ormai sottoterra: gli uomini vivono ognuno nella propria cella, identica a quella di chiunque altro, e ogni bisogno è nelle mani della Macchina, che si occupa di sfamare e di mettere in contatto le persone tramite un sistema di videochiamate. Tutto è teso alla produzione di idee e al risparmio di tempo; il contatto umano è considerato maleducato, l’amore filiale una debolezza. Più di un secolo fa, con la sua capacità di lucida analisi sociale, Forster ci parla di già dei danni dell’ipercondivisione, degli schermi che avvicinando le persone tralasciano le nuances, le emozioni, fornendo un’”idea generale” degli individui “che comunque era sufficientemente adatta a qualunque scopo pratico”. Dopo mesi di lockdown in cui tutto avviene tramite schermi, dalle attività universitarie alle riunioni di lavoro, questo racconto ci parla da vicino più che mai, avvertendoci del rischio insito non tanto nelle macchine, quanto dell’uso quasi religioso che l’uomo ne fa.
Dopo questi sette viaggi, ognuno dei quali ci porta in un altrove localizzato a una certa distanza dal nostro, il sapore che rimane è in bocca è quello di un vero e proprio sistema filosofico. Un fantastico che non è un divertissement letterario, non è una deviazione dal tracciato; è un vero e proprio procedimento utopico e distopico in chiave tremendamente concreta, in cui l’importanza dei capisaldi del sistema valoriale forsteriano (le relazioni, la natura, l’accettazione del diverso, la subordinazione del profitto e del concreto ad altre istanze) riesce a venire a galla nella sua imprescindibilità, quella che noi troppo spesso dimentichiamo in favore di cose solo apparentemente più importanti. Perché in fondo, come scopre il protagonista di Il senso della cosa, racconto che chiude la raccolta, tutta la nostra esistenza, i nostri successi, i nostri guadagni, si riassumono in un istante, in un amico, in un tramonto, in una certa emozione, a cui, alla fine della nostra esistenza, ritorneremo. Sta a noi saperlo riconoscere mentre accade, o lasciarlo scorrere via, e dimenticarlo.
Marta Olivi
Il fascino di questi sette racconti, forse, sta proprio nel loro vivere il fantastico in forme estremamente autoconsapevoli. Virginia Woolf ne parlò dicendo che “la propensione alla stravaganza si affranca dalla greve soma che suole opprimerla nei romanzi”, ma anche che “ci si accorge subito del suo [di Forster] imbarazzo di scolaretto che ha scantonato nel paese delle fate”. Leggendoli, ci si sente un po’ come invitati nella bellissima casa di un ospite non pienamente a suo agio. Eppure poter osservare i processi fantastici di uno scrittore del calibro di Forster da dentro, in modo così consapevole per lui, è un assoluto privilegio, oltre che una lettura deliziosa. Riusciamo così fin da subito a operare una macrodistinzione impressionistica tra i processi di strutturazione dei racconti. Ci sono i racconti in cui il fantastico è concepito come l’elemento di rottura che fa entrare aria nella più triviale normalità borghese, dalle preoccupazioni opprimenti, come in Addio a Colono, La storia di un panico, Omnibus per il cielo e Altro Regno; e poi ci sono i racconti che prendono quella normalità, la riducono all’ossatura psicologica e sociale, e poi la capovolgono con violenza, creando visioni allegoriche come in Di là dalla siepe, o potenti distopie come nel racconto La Macchina si ferma, che dà il titolo alla raccolta, e che meriterà un’attenzione particolare.
Ma andiamo con ordine. Il racconto che apre la raccolta, Addio a Colono, immerge il protagonista, Mr. Lucas, un uomo sul limitare della vecchiaia, nella natura della Grecia rurale, così diversa dal panorama antropizzato della sua nativa Inghilterra. È già da qui chiaro uno dei temi cardine dell’intera raccolta, l’opposizione tra natura e cultura, tanto più polarizzata in quanto i due termini del binomio sono la rigida cultura inglese del progresso e della tecnologia, che Forster anche altrove critica più o meno velatamente, e la natura selvaggia, spesso localizzata in luoghi i cui abitanti sono oggetto di aspre critiche da parte di quei personaggi di contorno che si dimostrano i portatori più convinti di questa forte e salda cultura razionalistica, vale a dire la Grecia in questo racconto e l’Italia in La storia di un panico. Personaggi estremizzati, che non riescono a guadagnarsi il favore dei lettori, il cui ruolo sarà proprio quello di interrompere l’esperienza di fantastico che seduce i protagonisti di questi due racconti. La figlia di Mr. Lucas, concreta e fattiva nel suo occuparsi dell’anziano padre, lo trascinerà via dalla fattoria greca dove lui aveva deciso di restare, sentendo forse un richiamo della morte che potesse liberarlo di ogni fardello terreno, comprendente non solo le sue incombenze legate alla sua vita in Inghilterra ma finanche il suo stesso corpo, ormai invecchiato. Lo stesso schema ritroviamo in La storia di un panico, dove vediamo un ragazzo, Eustace, cambiare radicalmente in seguito a qualche misteriosa forza manifestatasi in un bosco, forza che il suo insegnante, il curato Mr. Sandbach, si affretterà a spiegare come un’”apparizione demoniaca”, secondo i termini familiari della religione, rendendo così il fatto non solo logico ma anche moralmente connotabile in termini di bene e male. Tuttavia spiegare quanto è successo, e il conseguente comportamento di Eustace, che da quel momento rifugge gli spazi chiusi e la compagnia degli uomini, e cerca energicamente la libertà della natura, non è così facile; tanto più che il narratore di La storia di un panico, con tutte le sue chiacchiere sull’importanza dello sviluppo fisico e della solida educazione inglese, e guidando il partito degli adulti che cerca di mettere il ragazzo sotto chiave, ci terrà ostinatamente nascosto non solo il futuro del protagonista, quella “carriera” che avrebbe avuto inizio in quel giorno fatale (artista? Scrittore?) ma anche il senso della trasformazione di Eustace, che gli viene spiegato da un ragazzino italiano, Gennaro, e che il narratore non ci riporta, declassando la spiegazione con un’ellissi a “una quantità di osservazioni del tutto incoerenti”, e condannando noi lettori a restare inchiodati alla sua stessa ottusità di adulto perbene, sulla soglia del mistero.
Forse la carriera di Eustace è l’arte? Chi lo sa. Di certo l’arte da sola per Forster non basta a scardinare le porte della razionalità per far entrare il fantastico; arte da vivere e non da fruire, come riesce a fare il ragazzino protagonista di Omnibus per il cielo. Un ragazzino anonimo, che soffre tremendamente per la brama di qualcosa di più, che lui stesso, seguendo il sistema morale inculcatogli dai suoi concreti genitori suburbani, definisce “sciocco”. Ma questa brama sarà soddisfatta, grazie a un omnibus che lo porta in una sorta di Empireo dei grandi autori e personaggi della letteratura, in un turbine di meravigliose scene in cui i personaggi dickensiani vengono riconosciuti dalla voce, resa concreta e cara dalle riletture che il ragazzo aveva compiuto, consumando le pagine dei romanzi per farne uscire il suono, e in cui Achille viene approcciato come un affettuoso amico di vecchia data. Così anche la letteratura latina per Evelyn, protagonista di Altro Regno, una sorta di ninfa dei boschi malcelata da angelo del focolare, che si dedica allo studio di Virgilio e delle sue Bucoliche (opera scelta tutt’altro che a caso) nonostante ciò sia completamente inutile agli occhi del suo promesso sposo, che l’ha trovata in una fattoria in Irlanda e l’ha portata nella sua villa in campagna per farne sua moglie. Se la religione è un modo troppo facile per spiegare l’inspiegabile, l’arte per Forster è invece l’accettazione dell’inspiegabile, del fantastico; nella polarizzazione tra natura e cultura si pone ostinatamente dalla parte della natura, ne è un prolungamento, una celebrazione, una messa in versi.
Dopo questa entrata in punta di piedi nel mondo del fantastico, della natura, dell’irrazionale e dell’arte, gettiamoci dunque nelle visioni più sfrenate di Forster. In Di là della strada abbiamo un’allegoria della logica del perfezionamento infinito e del progresso senza fine che ci svela ancora una volta che quel pensiero materialistico e iperrazionalistico non è niente più di una sciocchezza fine a sé stessa, visualizzata come un percorrere una strada sempre uguale, che parte e termina con un giardino delle delizie in cui tutti vivono in pace, ma che è tremendamente difficile da accettare per chi vive seguendo le logiche del sorpasso, della competizione, del progresso, qui visualizzato secondo la sua radice etimologica come una vera e propria camminata verso avanti, in quella strada in cui chi si ferma è perduto, ma che in realtà riporta al punto di partenza, che altro non è se non la semplice, semplicissima felicità degli anziani e dei bambini. E infine, in La Macchina si ferma, arriviamo al parossismo di una vita ridotta al necessario, al fisico, in cui la natura è andata perduta, e la vita umana si muove ormai sottoterra: gli uomini vivono ognuno nella propria cella, identica a quella di chiunque altro, e ogni bisogno è nelle mani della Macchina, che si occupa di sfamare e di mettere in contatto le persone tramite un sistema di videochiamate. Tutto è teso alla produzione di idee e al risparmio di tempo; il contatto umano è considerato maleducato, l’amore filiale una debolezza. Più di un secolo fa, con la sua capacità di lucida analisi sociale, Forster ci parla di già dei danni dell’ipercondivisione, degli schermi che avvicinando le persone tralasciano le nuances, le emozioni, fornendo un’”idea generale” degli individui “che comunque era sufficientemente adatta a qualunque scopo pratico”. Dopo mesi di lockdown in cui tutto avviene tramite schermi, dalle attività universitarie alle riunioni di lavoro, questo racconto ci parla da vicino più che mai, avvertendoci del rischio insito non tanto nelle macchine, quanto dell’uso quasi religioso che l’uomo ne fa.
Dopo questi sette viaggi, ognuno dei quali ci porta in un altrove localizzato a una certa distanza dal nostro, il sapore che rimane è in bocca è quello di un vero e proprio sistema filosofico. Un fantastico che non è un divertissement letterario, non è una deviazione dal tracciato; è un vero e proprio procedimento utopico e distopico in chiave tremendamente concreta, in cui l’importanza dei capisaldi del sistema valoriale forsteriano (le relazioni, la natura, l’accettazione del diverso, la subordinazione del profitto e del concreto ad altre istanze) riesce a venire a galla nella sua imprescindibilità, quella che noi troppo spesso dimentichiamo in favore di cose solo apparentemente più importanti. Perché in fondo, come scopre il protagonista di Il senso della cosa, racconto che chiude la raccolta, tutta la nostra esistenza, i nostri successi, i nostri guadagni, si riassumono in un istante, in un amico, in un tramonto, in una certa emozione, a cui, alla fine della nostra esistenza, ritorneremo. Sta a noi saperlo riconoscere mentre accade, o lasciarlo scorrere via, e dimenticarlo.
Marta Olivi