Foto di Irene Chias per CriticaLetteraria |
C’è un tipo di storie che mi ha sempre affascinato: i romanzi i cui protagonisti sono scrittori a loro volta. Narrazioni moltiplicate, apparentemente svelate ma allo stesso tempo celate dietro altri veli, in cui il lettore sembra messo a parte di un segreto, ma a cui in realtà viene solo mostrata una serratura, senza però che gli sia data la chiave. È di questo che parla Fiore d’agave, fiore di scimmia di Irene Chias, appena uscito in libreria per Laurana editore: è la storia di Adelaide Dattilo, scrittrice di fantascientifiche distopie dallo scarsissimo successo, il cui agente Max la convince a recarsi nella sua nativa Sicilia per scrivere “un romanzo rosa”. Il libro prosegue così alternandosi tra la storia di Adelaide e il romanzo che lei scrive, una sorta di rimaneggiamento della sua vita, della sua famiglia e del borgo in cui è cresciuta. Eppure, mentre Adelaide scrive la storia di Adelasia cercando di convogliare nelle pagine “l’esperienza femminile” tanto importante quanto semplice e univoca secondo Max, non riesce a non pensare a come, forse, la vera esperienza delle donne e dell’umanità di oggi siano rese meglio dal genere distopico e dalla fantascienza, che, seppur in chiave cifrata, possono parlarci in modo più onesto del nostro mondo.
Il romanzo abbonda di riferimenti alla Sicilia contemporanea ma anche alla storia d’Italia, nelle sue contraddizioni e zone d’ombra, dalla legge Merlin al MUOS di Niscemi; nella cornice del nostro quotidiano, spesso lontana dalla fantascienza e più simile alla fantapolitica che tanto affascina Genova, personaggio alquanto singolare, che forma può avere la distopia intesa come chiave di lettura del reale, un caveat che ci impedisce di distruggere la nostra stessa umanità?
I romanzi fantastici, di fantascienza o di fantapolitica, hanno quasi sempre avuto la funzione di parlare del reale camuffandolo; hanno quasi sempre potuto costituire, per chi fosse stato in grado di coglierlo, un avvertimento. Purtroppo, i mezzi di persuasione collettiva sono altri e sono molto più pervasivi di un libro. L’adorazione del denaro come unica possibile prova del successo personale è diffusa a livello planetario e le culture diverse – l’unico reale “altro” – vengono marginalizzate e distrutte: tutto deve poter essere comprato coi soldi. Si inseguono con fatica, sacrifici e spesso azioni non etiche sogni di realizzazione sociale inculcatici per poter meglio favorire l’arricchimento spregiudicato di qualcuno già ricco. Ci sono varie narrazioni che lanciano l’allarme della deriva (sociale, ambientale, di salute) già ampiamente intrapresa dalla contemporaneità. Ma non sembra che possano bastare, anche perché per ogni avvertimento ci sono cento narrazioni che invece perpetuano e promuovono il paradigma del capitalismo più spietato.
Fiore d'agave, fiore di scimmia di Irene Chias Laurana Editore, 2 luglio 2020 pp. 192 € 18 (cartaceo) € 7,99 (ebook) CLICCA QUI PER ACQUISTARE IL ROMANZO |
Adelaide e Adelasia, Rocca Musciaro e Sant’Angelo Muxaro: leggendo il romanzo è facile identificare l’atto della scrittura con Adelaide, la scrittrice protagonista del romanzo, e autrice del romanzo nel romanzo che è Fiore d’agave, fidandoci ciecamente della sua narrazione in prima persona fino a confonderla con la figura dell’autrice retrostante. Ma è un tranello narrativo in cui non dobbiamo assolutamente cadere. Dunque, che posizione occupa Irene Chias in questo binomio apparentemente perfetto di Adelaide e Adelasia? Anzi, che posizione si sente di occupare nella sua scrittura? Le è mai venuto in mente, come fa Adelaide con il racconto Io e la scimmia, di iniziare un racconto scrivendo “Mi chiamo Irene Chias e…”?
È un gioco che diversi autori intraprendono. Io finora non ne sono mai stata davvero tentata. È quella che Adelaide a un certo punto del romanzo chiama “autofiction mistificatoria”, per ricordare che in una narrazione che non si dichiari documento storico non ha importanza sapere se lei, Adelaide, ha davvero fatto un tirocinio al Great Apes Trust nello Iowa, o se Irene ha mai trascorso tre settimane a Sant’Angelo Muxaro per scrivere un romanzo rosa. Non ha neppure importanza sapere se Adelaide (o Irene, per quel che vale) ha davvero partorito quel neonato così speciale. Irene Chias sarebbe un terzo livello che non farebbe che complicare le cose. Immagino sia inevitabile pensarci, ogni tanto. Ma affidandosi alla lettura, Irene dovrebbe – se non sparire – quanto meno sbiadire.
Nel romanzo Adelaide si divincola sotto le categorie che Max, il suo agente, le riversa addosso nel momento in cui le chiede perentoriamente di scrivere “un romanzo rosa”; ha mai provato una simile pressione “da fuori”, nello scrivere? O si è sempre sentita libera di attraversare categorie e stereotipi?
Dopo la pubblicazione del primo romanzo, quindi dopo essersi rese conto che in effetti è possibile che in molti leggeranno quello che si scrive, la pressione esterna si sperimenta in varie forme. Per quel che mi riguarda in certe brevissime fasi mi ha un po’ paralizzata. Per me la soluzione è consultarmi con persone di cui ci mi fido, immaginare loro come lettori. Uso il maschile perché nel mio caso sono soprattutto due amici. Questo per quanto riguarda la scrittura, che per me fino ad ora, non essendo io troppo famosa o troppo venduta, è rimasta abbastanza sganciata dalla fase della pubblicazione. Per il resto ho ricevuto dei rifiuti che ho sentito mi riguardavano in quanto donna. Una volta mi venne detto che la mia scrittura era troppo colta e acuta per rientrare nella categoria di libri di consumo per giovani donne. Solo che non era mai stata mia ambizione rientrare in quel genere. Un’altra volta, esattamente come succede ad Adelaide, un romanzo venne rifiutato con la motivazione che la casa editrice non apprezzava la chick-lit. Quindi risposi qualcosa di simile a quello che dice Adelaide:
«Ma è la storia di una persona affetta da epilessia del lobo temporale, causa di continui e invalidanti déjà-vu, che esegue indagini simulate in una immaginaria Palermo del 2051 e in un contesto geopolitico completamente mutato, a livello planetario, rispetto a quello attuale. Non ci sono tacchi dodici, non si parla di shopping, non si parla neanche di amore se non di quello per una madre morta a causa di un processo di crioconservazione andato in malora. Siete sicuri che si tratti del mio libro?».
Non è un caso che nella nota finale si dica che Crampi psichici (o Neuropalermo) è un testo realmente esistente ma mai pubblicato.
Irene Chias e Pluto per CriticaLetteraria |
E fuori dal romanzo, invece, quali sono le scatole attraverso cui si devono muovere le donne oggi, che sia nella sua nativa Sicilia ma anche in Italia e a Malta, dove vive ora?
In Italia per anni le gabbie sono state soprattutto quelle sottili e quasi non percepite del cosiddetto “sessismo benevolo”, il quale però, anche grazie alle spinte internazionali, si trova adesso stretto nella categoria di maschilismo, non lo accetta e non accettandolo mostra anche il suo volto brutale. Un uomo che non riesce ad ammettere di non poterci provare sempre e comunque, che non accetta che se allunga la mano sulla dipendente sta esercitando un abuso, si inferocisce nel venire giudicato male, nel sentirsi “limitato”. Spesso da questa ferocia viene fuori il vero volto del cosiddetto “sessismo benevolo”. E questo è un bene, perché aiuta a individuarlo meglio. Il vittimismo del maschilista che non può più esserlo senza venire riconosciuto come tale è un’ottima cartina di tornasole. Sono due aspetti dello stesso problema culturale, il “benevolo” è l’aspetto cronico, il femminicidio è l’aspetto acuto. Più grave e doloroso, ma più facile da diagnosticare. Per quanto riguarda Malta, si vive una dimensione contraddittoria. Se da una parte l’influenza anglosassone, dove i Gender Studies hanno una storia più lunga e più ricca, porta l’isola ad essere culturalmente più aperta a determinate prese di coscienza, dall’altra l’influenza del cattolicesimo più reazionario fa sì che l’isola resti, ad esempio, uno dei cinque Paesi al mondo e uno dei due in Europa (l’altro è il Vaticano) con la legislazione più restrittiva in tema di aborto: un divieto totale in qualunque circostanza. È quindi l’unico dell’Unione europea ad avere norme implacabili anche in caso di stupro, incesto, violenza su minori, alto rischio di morte per la madre o anche per entrambi, madre e nascituro. Secondo gli attivisti per la libertà di scelta, i sedicenti pro-life sono tutt’altro che a favore della vita, sono semplicemente “pro-parto”.
Seguendo questo allaccio alla contemporaneità, tra i personaggi appartenenti alla storia italiana citati nel romanzo c’è anche Indro Montanelli, fiero oppositore della legge Merlin; come ha vissuto le proteste delle scorse settimane relative alla statua a lui dedicata?
Nel romanzo ci sono anche un riferimento a un virus mutante e uno a Rodney King, il tassista afroamericano il cui brutale pestaggio da parte della polizia di Los Angeles nel 1991, dopo l’assoluzione degli agenti l’anno successivo, ha dato luogo ai famosi Los Angeles Riots del 1992. Credo che ci siano delle urgenze non affrontate nella nostra realtà contemporanea: come dimostrano l'assassinio di George Floyd e il Covid-19, l’emergenza razziale in America o l’attesa di una catastrofica pandemia (i virologi parlano da anni di un superbatterio creato negli allevamenti intensivi, che pure in Europa continuano a venire sovvenzionati da fondi pubblici) sono due di queste. Un’analoga sensazione di “problema irrisolto” aleggia sulla controversa figura di Montanelli, un uomo fino all’ultimo dichiaratamente razzista e compiaciutamente sessista. Ho vissuto le proteste sulla statua come un segnale che i tempi sono cambiati, e almeno da questo punto di vista in meglio. Chi dice che “essendo un uomo” non poteva fare altrimenti, perché si sa che “l’uomo ha certe esigenze”, rappresenta il vecchio, l’obsoleta prospettiva del maschio sessuomane irrazionale, la cultura dello stupro che finalmente viene messa in discussione per quello che è: uno schifo. Personalmente, invece di abbattere o rimuovere la statua, l’avrei lasciata sotto la colata rosa del 2019. Ma di anno in anno il pensiero evolve: se Non Una Di Meno aveva usato una vernice lavabile, quest’anno le secchiate rosse e nere non erano così facilmente rimovibili.
Nella galassia dell’editoria italiana, riuscirebbe a vedere un ritorno della fantascienza, genere che al momento è alquanto latitante, forse anche in virtù della mancata ricezione italiana del potenziale rivoluzionario del genere? E soprattutto, un’opera di fantascienza scritta da una donna richiederebbe secondo lei un cambio di nome al maschile, come hanno dovuto fare Katharine Burdekin con il suo La notte della svastica nel 1937 ma anche Adelaide, nel romanzo?
Più che la fantascienza, credo che, come osserva Adelaide in relazione al paese siciliano, la distopia – quello che siamo abituati a vedere come distopia – stia per diventare mera cronaca. Non vedo un ritorno della fantascienza in senso stretto, però vedo un interesse crescente nei confronti del genere da parte di alcuni autori. Credo che non siano molte le autrici che oggi, nel 2020, sarebbero disposte a fingersi maschi per avere la strada più facile. Ma soprattutto lo spero.
Intervista a cura di Marta Olivi