Open. La mia storia
di Andre Agassi
Einaudi, 2011
pp. 502
€ 20,00 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
€ 7,99 (ebook)
Titolo originale: Open. An Autobiography
Traduzione di Giuliana Lupi
Non si sa sempre riconoscere che cosa è che ti rinchiude, che ti mura vivo, che sembra sotterrarti, eppure si sentono non so quali sbarre, quali muri. [...] Sai tu ciò che fa sparire questa prigione. È un affetto profondo, serio. Essere amici, essere fratelli, amare spalanca la prigione per potere sovrano, per grazia potente.
La citazione posta in esergo comincia, fin dalla prima pagina, a picconare i miei pregiudizi circa le autobiografie degli sportivi. Le parole di Van Gogh imprimono da subito il loro segno sulla narrazione, che si configura come una storia di gabbie, ma anche di ricerca disperata di libertà. Non so ancora, perché lo scoprirò solo nella postfazione, che il volume è stato scritto con la collaborazione di un nome tutt’altro che ignoto, quello di J.R. Moehringer, che non ha voluto “apporre la sua firma sulla vita di un altro” (p. 496), ma il cui contributo è stato fondamentale nella stesura del grande romanzo di una vita. Quindi, per il lettore, le scoperte si concentrano agli estremi del volume, ma è tutto ciò che sta in mezzo che ha il sapore della rivelazione. Perché si può non essere appassionati di tennis, o di sport in generale; si può non sapere nulla di Andre Agassi e andare a cercare i video su YouTube per la prima volta man mano che la lettura procede. Eppure alla fine si amerà il personaggio – bisognerebbe dire la persona, che emerge dalla pagina con la nitidezza e l’impatto di qualche verità – e lo si sentirà vicino.
La storia inizia dalla fine. Dall’epoca dello scontro tra Agassi e Baghdatis agli US Open del 2006. Andre ha deciso di ritirarsi: dopo una lunga carriera, il suo corpo ha iniziato a ribellarsi, infliggendogli enormi sofferenze. Tuttavia qualcosa in lui frena, tira indietro, perché “se il tennis è la vita, allora ciò che viene dopo il tennis deve essere vuoto insondabile” (p. 11). Ecco allora che le istanze che si oppongono sono in due, in perenne tensione antitetica, e riecheggiano quella che è la sua attitudine verso lo sport da quando è un bambino che lancia le sue prime palle (“Fa’ che finisca presto. Non sono pronto a smettere”). È da questa lacerazione interiore che prende slancio lo sguardo al passato, la rilettura di quei ventinove anni in cui il campo da gioco è stato la sua dimensione.
Andre odia il tennis e al contempo non può farne a meno. Per lui, sin da quando è un bambino di sette anni ed è costretto a colpire 2500 palle al giorno (cioè “17500 a settimana e quasi un milione in un anno”, p. 37), il talento si fa condanna, il duro allenamento prigione. Nessuno gli chiede cosa desideri davvero: non il padre-padrone, violento e collerico, che sfoga su di lui le sue ambizioni frustrate e crea macchinari spaventosi per farlo esercitare senza sosta (come il temibile “mostro” spara-palline); non la madre debole e sottomessa. Non Nick Bollettieri, fondatore di una fabbrica per talenti che è in realtà “un campo di prigionia nobilitato. E neanche poi tanto” (p. 95), che vuole sfruttare le sue capacità per dar lustro alla sua Accademia. Nemmeno i suoi insegnanti, che vedono in lui soltanto un ragazzino ribelle, disimpegnato e arrogante, senza cogliere dietro al suo comportamenti i segnali di una profonda infelicità e senza riuscire a vedere la sua interiorità dietro alla maschera. L’esordio del giovane Andre è all’insegna dell’anticonvenzionale – il taglio di capelli, l’abbigliamento, lo stile di gioco – e tutti sono pronti a giudicare, idolatrando come i fan, o distruggendo come i critici sportivi. Eppure in pochi indagano e capiscono.
Dicono che mi voglio distinguere. In realtà – come con il taglio da mohicano – sto cercando di nascondermi. Dicono che cerco di cambiare il tennis. In realtà sto tentando di evitare che il tennis cambi me. [...] Distinzioni sottili, ma importanti. In sostanza, non faccio altro che essere me stesso e poiché non so chi sono, i miei tentativi di scoprirlo sono maldestri e fatti a casaccio – e, ovviamente, contraddittori. Non faccio niente di più di quello che facevo alla Bollettieri Academy – resistere all’autorità, fare esperimenti con la mia identità, mandare un messaggio a mio padre, agitarmi contro la mancanza di scelta nella mia vita. Ma lo faccio su un palcoscenico più vasto. (p. 149)
Quella che si dispiega tra le pagine è una riflessione profonda sul peso e la responsabilità che comporta un grande talento. Andre detesta lo sport che lo ha strappato alla sua giovinezza, che ha fatto di lui un uomo-bambino, che gli ha impedito di finire gli studi o di trascorrere le giornate come qualunque altro adolescente. E al tempo stesso il tennis è diventato la sua vita, con i suoi alti e bassi, le vittorie e le cocenti sconfitte, ed è quasi impossibile per lui immaginare una realtà diversa da questa. Le contraddizioni e i tormenti interiori, la cifra di verità – spesso impietosa – con cui non si risparmia sulla pagina, sono ben lungi dal mettere in cattiva luce il narratore, che anzi acquista sempre più spessore, trascina il lettore sempre più a fondo nella propria visione del mondo e nella propria esperienza. Così le tematiche affrontate si ampliano: il rapporto con la famiglia, conflittuale con il padre, strettissimo con il fratello Philly; la paura del fallimento in occasione dei primi tornei importanti; i match più significativi; l’amicizia con Gil e lo studio del funzionamento del corpo; la fase di crisi in cui pare che nulla abbia senso e il giocatore si lascia scorrere addosso ogni match e ogni sconfitta; le relazioni amorose; la caduta nella droga come culmine di un processo di autolesionismo (“A parte lo sballo, provo un’innegabile soddisfazione a farmi del male e ad abbreviare la mia carriera. Dopo decenni in cui mi sono dilettato di masochismo, adesso ne faccio la mia missione”, p. 319).
Particolarmente interessante è la descrizione del rapporto conflittuale di Agassi con i media e con la propria immagine, che questi riflettono per lo più in maniera distorta: a partire dalla realizzazione della campagna pubblicitaria Canon, in cui l’infelice spot “L’immagine è tutto” viene considerato dalla stampa una sua dichiarazione di intenti e filosofia esistenziale, i tabloid sistematicamente fraintendono il suo carattere e il suo pensiero, lo demonizzano, cercano ogni via per dissacrarlo. Andre, dal canto suo, non riesce a essere indifferente: profondamente autocritico, non ancora consapevole della propria identità, il tennista cerca conferme, guarda ai giornali e permette suo malgrado che quel che scrivono in qualche modo lo determini. Nel corso del volume, appare chiaro e a più riprese che è Agassi il peggior nemico di Agassi. Emotivo, a tratti autodistruttivo, l’uomo è ben lontano dalla pacata sicurezza di alcuni suoi rivali e questo, se non sempre lo fa risultare simpatico al lettore, di certo lo rende profondamente umano.
Particolarmente interessante è la descrizione del rapporto conflittuale di Agassi con i media e con la propria immagine, che questi riflettono per lo più in maniera distorta: a partire dalla realizzazione della campagna pubblicitaria Canon, in cui l’infelice spot “L’immagine è tutto” viene considerato dalla stampa una sua dichiarazione di intenti e filosofia esistenziale, i tabloid sistematicamente fraintendono il suo carattere e il suo pensiero, lo demonizzano, cercano ogni via per dissacrarlo. Andre, dal canto suo, non riesce a essere indifferente: profondamente autocritico, non ancora consapevole della propria identità, il tennista cerca conferme, guarda ai giornali e permette suo malgrado che quel che scrivono in qualche modo lo determini. Nel corso del volume, appare chiaro e a più riprese che è Agassi il peggior nemico di Agassi. Emotivo, a tratti autodistruttivo, l’uomo è ben lontano dalla pacata sicurezza di alcuni suoi rivali e questo, se non sempre lo fa risultare simpatico al lettore, di certo lo rende profondamente umano.
Nello spogliatoio fisso la mia immagine riflessa nella coppa. Mi rivolgo al trofeo e a quel riflesso distorto: Tutto il dolore e la sofferenza che mi hai provocato.
Sono spaventato dal mio stordimento. Non mi dovrebbe importare così tanto. Non dovrei essere così contento. Ondate di emozione continuano a sommergermi, provo sollievo, euforia e perfino una sorta di isterica serenità, perché mi sono finalmente assicurato un attimo di tregua dalle critiche, soprattutto da quelle che mi rivolgo da solo. (p. 212)
Open è allora anche e prima di tutto un romanzo di formazione, che descrive un percorso di acquisizione di sicurezza e consapevolezza e permette di rileggere, retrospettivamente, il filo rosso che porta un grande campione a essere quello che è:
Odio il tennis più che mai – ma odio ancora di più me stesso. Mi dico: E allora, a chi importa se odi il tennis? Tutta quella gente là fuori, tutti i milioni di persone che odiano ciò che fanno per vivere, lo fanno comunque… Forse il punto è proprio fare ciò che odi, farlo bene e con allegria. Odi il tennis, quindi. Odialo quanto ti pare, ma devi pur sempre rispettarlo – e rispettare te stesso. (p. 325)
Attraverso le pagine, attraverso gli errori, attraverso decisioni a volte clamorosamente sbagliate, o decisamente stupide, Andre impara. Impara a trovare dentro di sé le risposte. Impara a conquistarsi un nuovo inizio, questa volta davvero voluto e attivamente scelto.
Carolina Pernigo
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