Il senso della fine
di Frank Kermode
Il Saggiatore, luglio 2020
1^ edizione: 1967
Traduzione di Giorgio Montefoschi e Roberta Zuppet
pp. 240
€ 26 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)
Le premesse di questo saggio di Frank Kermode, da molti considerato il suo capolavoro, sono a dir poco sfidanti. La domanda che si pone non è facile, così come le risposte che cerca. Il compito del critico, secondo Kermode, è un compito “minore” rispetto a quello dei poeti, che «ci aiutano a dare un senso alla nostra vita» (p. 9); è semplicemente «la spiegazione dei modi con cui noi cerchiamo di dare un senso alla nostra vita» (p. 9) , racchiudendo in quel “noi” tutti i lettori e gli scrittori di ogni epoca. Come incipit, non c’è male.
È così che inizia un viaggio che lo porterà dall’Apocalisse di San Giovanni a Il pasto nudo di William Burroughs, passando per William Shakespeare ed Ezra Pound; un viaggio il cui scopo è capire come mai la fine, intesa come apocalisse dei metodi di costruzione di senso, affascina così profondamente l’essere umano, tanto da riemergere di continuo nella poesia e soprattutto nella fiction (tradotta nell’ormai piuttosto datata traduzione di Giorgio Montefoschi e Daniela Zuppet come “finzione”), che per Kermode ha il pregio di raccontare gli schemi di significazione senza pretese di realtà e stabilità, come invece fanno i miti. La finzione ci racconta la realtà, il mito ne vuole dettare le leggi. Ed è proprio in questo legame ibrido della fiction con la realtà, sempre indeciso tra accettazione e messa in discussione, che va ricercata l’importanza del romanzo di ogni epoca, e il suo valore inestimabile ai fini dell’elaborazione della storia del pensiero occidentale.
A questo punto, è d’obbligo una precisazione. La missione di Kermode, che lui definisce missione del critico letterario tout court, cioè quella di tracciare i contorni della storia del pensiero aiutandosi con la fiction e la poesia di ogni epoca, dagli antichi Greci fino ai suoi contemporanei, ci può sembrare oggi limitante, quasi omologante nel suo ricercare le affinità di pensiero anziché dare risalto alle differenze. Eppure questo saggio del 1967, definito dalla prefazione di Daniele Giglioli come «datato, datatissimo» (p. vii), ha ancora moltissimo da insegnarci. Non solo perché, come dice lo stesso Giglioli, «l’angoscia dell’Apocalisse è tornata a bussare alla porta con una petulanza che non si lascia accantonare con un’alzata di spalle» (p. vii); ma soprattutto perché il metodo utilizzato da Kermode, affiancato alla sua erudizione senza fini, non ha pretese di essere una struttura rigida, risuonando così come una sinfonia di rara bellezza. In un percorso a due binari che procede parallelamente tra realtà e letteratura, Kermode sorpassa un postmodernismo che negli anni ’60 non era ancora nemmeno giunto a maturazione, ricordando come le modalità di percezione degli scrittori, e dunque le loro modalità di vita pubblica e privata, siano la conditio sine qua non della creazione artistica.
Per far ciò, Kermode non parte semplicemente da un canone occidentale à la Harold Bloom. Parte dal ticchettio di un orologio. La spiegazione del nostro percepire l’orologio come un ticchettio a due tempi, un tick sempre completato da un tock, starebbe proprio nel bisogno umano di conclusione, di ritmo, di iniziare e finire, per citare la sesta e incompiuta lezione americana di Calvino. Non possiamo sopportare un tick senza un tock, così come non possiamo sopportare il nostro esistere solamente per un segmento limitato della lunghissima storia dell’umanità. Abbiamo dunque bisogno di narrazioni che ci diano una Genesi e un’Apocalisse, il cui senso si allarghi al di fuori della fiction per arrivare a contagiare la nostra realtà.
La modernità del metodo di Kermode appare ancor più chiara nell’Epilogo, da lui scritto in occasione di una nuova edizione del suo libro, trent’anni dopo la pubblicazione originale, in cui, all’alba del nuovo millennio, nuovi fatti di politica globale vengono citati come esempi reali di quella stessa Apocalisse che lui vede perseguitare gli scrittori di ogni epoca. Chissà cosa penserebbe Kermode della realtà e della fiction a noi contemporanee, se fosse vivo oggi. Sicuramente il suo metodo, questa sticomitia tra realtà, fiction e natura umana, merita una riscoperta, così come i suoi moniti contro la messa in pratica della tendenza apocalittica dell’uomo tramite ogni forma di totalitarismo e intolleranza, resi precisi e pressanti proprio dalla lucidissima capacità di analizzare la natura umana in trasparenza dietro la forma del romanzo.
Marta Olivi
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