Il primo maestro
di Tschingis Aitmatov
Marcos y Marcos, 2020
pp. 122
€ 15,00 (cartaceo)
Traduzione dal russo di Guido Menestrina
Si annida, tra queste pagine, una storia che deve essere detta. Il narratore è un artista, ma l’urgenza che lo coglie è tale da farlo ricorrere alle parole prima che alla pittura. Tutto inizia e finisce a Kurkureu, un borgo kirghiso che si esaurisce in poche case e una collina su cui svettano due pioppi, veri e propri numi protettivi per gli abitanti. Per i bambini che si arrampicano tra i rami, gli alberi si fanno maestri della vastità del mondo:
Nascosti tra i rami, noi pensavamo: è forse la fine della Terra, oppure ancora più in là ci sono lo stesso cielo, le stesse nubi, steppe e fiumi? Nascosti tra i rami, ascoltavamo i suoni dei venti, non terreni, e le foglie che, in risposta, sussurravano di regioni seducenti e misteriose, che si nascondevano oltre le azzurre lontananze. Io ascoltavo il rumore dei pioppi, e mi palpitava il cuore dalla paura e dalla gioia, e sotto quell’irrefrenabile stormire mi sforzavo di immaginare quelle lontane terre. (pp. 14-15)
Esistono però altri modi per arrivare lontano, per vedere ciò che accade oltre il limite dello sguardo. Lo sa bene chi, un tempo, quei pioppi li ha piantati. Di questo, in fondo, narra il breve romanzo edito da Marcos y Marcos. Protagonisti della storia sono un maestro e una ragazzina. Un maestro giovane e quasi analfabeta e una quindicenne orfana, che cresce in un contesto violento e anaffettivo. Djujšen e Altynaj.
È quest’ultima a raccontare la storia, in una struttura a incastro che dal presente ci riporta a un passato ormai lontano, più specificamente al 1924. La Russia porta ancora i segni della rivoluzione e nelle campagne i contadini sono tutt’altro che favorevoli all’idea dell’istruzione, che toglie risorse al lavoro agricolo e viene vista come un attributo dei padroni. È quindi con la forza delle sue braccia e il sudore della sua fronte che Djujšen, trascinato dal suo idealismo e dall’irruenza dell’età, si mette a costruire, letteralmente, la scuola e poi va a prendere i bambini casa per casa per condurveli. Il primo maestro è, per i suoi allievi, colui che spalanca porte nuove, che aiuta a fare progetti più grandi, che porta in braccio chi non ce la fa:
Probabilmente abbiamo tutti amato un tempo il nostro maestro per la sua umanità, per le sue buone intenzioni, per i suoi sogni sul nostro futuro. [...] Che cos’altro ci faceva andare tutti i giorni così lontano e salire il ripido poggio, ansimando per il vento, affondando nei cumuli di neve? (p. 59)
Altynaj, in particolare, per la prima volta guardata sul serio, con uno sguardo di speranza e affetto, fiorisce scoprendo in sé capacità e sentimenti prima sconosciuti.
Quella narrata da Tschingis Aitmatov è una storia di altri tempi, che affonda le radici in un’altra epoca e si colloca in un preciso contesto storico-sociale, da cui non può prescindere: gli ideali della rivoluzione in bilico tra crisi e speranza, la morte di Lenin, la povertà delle campagne, la brutalità di certe consuetudini. Al contempo, però, è una storia universale, che parla di un’inesausta passione per l’umano, della fede ardente in una missione, del potenziale salvifico dell’istruzione. Della forza di uno sguardo che avvera e realizza, che ti insegna a desiderare il meglio per te stesso: grazie alla cura amorevole del maestro, Altynaj trova la forza, insperata, di ribellarsi a un destino funesto, di lottare per la propria libertà proprio quando questa sembra perduta. Il primo maestro è anche la storia di un sentimento inespresso, ma vivo e pulsante: il sentimento di chi vuole il meglio per l’altro ed è disposto a rinunciare per questo al proprio stesso bene.
Il testo, seppur datato, vive e respira di descrizioni liriche della campagna kirghisa, aspra nei suoi inverni e radiosa nelle sue primavere, che alleggeriscono i cuori agli allievi, ma anche al lettore contemporaneo:
Dal poggio, su cui stava la nostra scuola, si apriva alla vista il meraviglioso mondo primaverile. La terra, come stendendo le braccia, scendeva di corsa dalle montagne e, senza riuscire a trattenersi, si lanciava nelle lontane steppe scintillanti d’argento abbracciate dal sole e da una leggera, trasparente foschia. Da qualche parte in capo al mondo azzurreggiavano laghetti di neve sciolta, da qualche parte in capo al mondo volavano in cielo gli aironi, portando sulle proprie ali le bianche nuvole. Da dove arrivavano in volo gli aironi e verso che luogo chiamavano il cuore con quelle voci così ansiose, così risonanti? (p. 75-76)
“Perché le tracce degli uomini non restano per sempre nei luoghi a loro cari e indimenticabili?” (p. 99) si chiede a un tratto la ragazzina fatta donna, mentre ripensa con rimpianto al suo passato, al suo percorso di crescita e riscatto. Eppure una traccia del passaggio del maestro e della sua allieva resta evidente nel kolchoz dove tutto ha avuto inizio, in quei due pioppi che diventano metafora della loro trascorsa amicizia e ne raccolgono l’eredità – facendo della loro vicenda un monito per le nuove generazioni e un nucleo di verità che l’artista deve provare a cogliere.
Carolina Pernigo
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