Le brigate
di Ariel Luppino
Edizioni Arcoiris, 2020
Traduzione di Francesco Verde
pp. 168
€ 13
Le brigate (Edizioni Arcoiris) è il primo romanzo di Ariel Luppino, un autore argentino che affida il suo esordio a un testo durissimo e che mette a disagio in ogni pagina, ma che è in grado di mostrare le potenzialità di uno scrittore che si è appropriato di modelli letterari titanici, li ha fatti propri e li ha estrinsecati in un’opera personale ma inserita perfettamente nel filone della letteratura sudamericana contemporanea che sta dicendo tanto e che molto avrà ancora da dire. Il suo è un progetto che, lungi dall’essere un semplice esperimento letterario, incarna piuttosto l'immagine del mondo preconcetto e preesistente nella mente dell'autore: la narrazione di Luppino, culto della scrittura pura, genera un universo nel cui nucleo una certa realtà non letteraria sembra riposare.
Argentina, Buenos Aires. All’interno di un orribile Centro di Detenzione le brigate, le guardie a servizio di un folle despota chiamato il Milite, hanno diritto di vita, di morte e di tortura sui reclusi. I diritti civili sono stati sospesi a causa di una misteriosa epidemia, probabilmente causata dai topi, e in questa realtà in cui non esiste alcun ordine etico o morale, ogni violenza è permessa. I prigionieri caricati sui camion come bestiame diretto al macello vengono destinati alla scuoiatura dei i topi e svolgono il loro lavoro tra mille soprusi e spaventose violenze.
Nelle Brigate Ariel Luppino crea una storia in cui la violenza si trasforma in una terribile, abietta e ribelle routine quotidiana; la realtà del romanzo è una distopia in cui a Buenos Aires la sovversione interessa anche la comunicazione, dato che la misteriosa malattia sembra colpire persino la favella: nessuno, in città, è in grado di esprimersi da essere umano normale. Del resto non c’è normalità in questo tempo di dittatura durante il quale nessuno ricopre il ruolo della vittima: il degrado investe tutti i personaggi; non c'è personaggio con cui il lettore possa identificarsi. Nemmeno con il narratore o con il Capitano: tutti fanno parte dell'attrezzatura della violenza e, anche quando vittime, loro stesse saranno sopraffate dal potere superiore che vigila sulla popolazione e che prima o poi li annienterà.
Come Kafka o Poe, Luppino sa come progettare un cosmo le cui regole (dichiarate in un linguaggio palesemente innaturale) sono quelle di una realtà autonoma, una realtà che tollera solo sé stessa, la sua unica e singolare dimensione, dove non entra alcuna impurità di altre realtà. In qualità di progettista, l’autore mette in piedi un'architettura dell'Inferno di matrice nazionale che lascia totalmente isolato il lettore, a cui non resta altro che assistere impotente a una realtà incontrollabile dall’esterno così come dall’interno della storia stessa. L’unica sensazione concessa è una sorta di ebbrezza stilistica provata di fronte alla dimensione linguistica del romanzo, dal ritmo complesso, musicale, denso di accelerazioni e distensioni, di vette e precipizi narrativi di cui l’autore si serve pe erigere l’impalcatura del suo mondo.
I pazienti riescono a concatenare una serie di fonemi, persino ad articolare parole, ma ciò che dicono rimane oscuro, elusivo, come se ogni frase derivasse da un sistema di cifratura.
E in tutto questo inesistente equilibrio di verità e dolore, l’ultima caratteristica da segnalare è l’uso corrosivo dell’umorismo, del tipo che provoca una smorfia più vicina al disgusto che al sorriso. L’ironia diventa l’ennesimo ingrediente vicente di un esordio unico e originale, che sorprende e spaventa e che, di certo, non è adatto a essere letto in qualunque fase della propria vita da lettore, seppur l’invito che porgo è quello di trovare un momento per scoprire quanto possa la violenza efferata commuovere e spingere alla riflessione.
Federica Privitera