di Ali Smith
Sur, 2020
Traduzione di Federica Aceto
pp. 300
€ 17,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
È quel genere di coincidenza che fa risplendere come luci accese le verità nascoste delle nostre vite. Le nostre vite che spesso somigliano, potremmo dire, a una sequenza di cartoline. (p. 88)
Certe storie aprono squarci. Certi libri ne richiamano alla mente altri pur mantenendo la propria assoluta unicità. Certi libri – e certi autori – ti portano a credere che la letteratura contemporanea è vibrante di vita, lo sguardo puntato sulla società entro cui affonda le radici eppure capace di trascendere il tempo e lo spazio con l’universalità delle tematiche trattate. Certi autori fanno a pezzi le parole, le norme di scrittura, la tradizione, e inventano un mondo letterario a propria misura, convincendo il lettore che esistono ancora nuove forme, nuovi modi per narrare il mondo e gli uomini. E, non da ultimo, certi romanzi sono una sfida per i traduttori, questo gruppo di eroi bistrattati e che invece possiedono la chiave unica per entrare come nessun altro in quella storia, maneggiarla con rispetto e premura, restituendo all’autore una voce che è ancora una volta la sua, seppur mutata.
Ali Smith è una delle scrittrici di lingua inglese più interessanti che ci siano in circolazione e per quel che mi riguarda la prova che negli ultimi anni la produzione letteraria tra Irlanda e Scozia – due luoghi che hanno molti punti in comune, a partire dal rapporto complesso con ciò che presuppone il termine Regno Unito – vive un nuovo fermento culturale e una capacità di sperimentazione notevoli. E, soprattutto, sono le scrittrici a mio avviso ad aver aperto uno squarcio nella letteratura contemporanea, cercando nuove forme di narrazione, lo sguardo vigile sulla realtà contemporanea o il richiamo a tematiche universali cui si accostano in modi inattesi. Penso per esempio a Sally Rooney che con due soli titoli è diventata tra le scrittrici più influenti del panorama editoriale in lingua inglese, parole che sono lame e sentimenti messi a nudo sulla pagina, o, ancora, a Eimear McBride il cui Bohémien minori è un capolavoro di scrittura, sperimentazione, capacità di scorticare il lettore.
Ali Smith e la sua tetralogia ispirata alle stagioni, di cui è da poco in libreria il terzo volume, Primavera, si colloca a tutto diritto in questo filone, considerata dalla critica – che le ha meritatamente assegnato prestigiosi premi – come l’autrice più importante attualmente in attività in Gran Bretagna e Irlanda. Il merito di aver portato Smith al pubblico italiano va, prima ancora che a una casa editrice, alla sua traduttrice storica, la bravissima Federica Aceto, che inizialmente per Minimum Fax e Feltrinelli e infine per Sur ha dato voce a questa autrice poliedrica e innovatrice. Smith si muove agilmente tra racconto e romanzo, producendo ogni volta una contaminazione di forme e sovvertendo “regole” narrative e tradizione.
Primavera, quindi. Un romanzo che fonde in maniera magistrale la capacità di osservazione del reale, lo sguardo sulla contemporaneità nei suoi aspetti più contraddittori, e una riflessione di più ampio respiro su tematiche e spunti che mirano all’universale. Attualissimo e allo stesso modo fuori dal tempo. Un romanzo che sovverte ogni regola, in cui le voci e i punti di vista si mescolano, fatti e svolte importanti sono anticipati e non sempre seguono un regolare ordine cronologico eppure risultano ugualmente efficaci, il particolare si intreccia all’universale, il singolo alla comunità. Smith chiede al lettore di fare uno sforzo, di stringere un patto con l’autore e fidarsi: dell’immaginario letterario creato, del reale che talvolta ha contorni meno definiti, inserendo un dettaglio fuori dall'ordinario di un mondo assolutamente reale e riconoscibile, similmente a quanto avveniva in Exit West, uno dei romanzi più importanti degli ultimi anni, con il quale si possono trovare alcune connessioni.
Richard, regista televisivo in crisi esistenziale e professionale, Brittany, agente di sicurezza in un centro di detenzione per immigrati senza documenti, Florence, sorprendente dodicenne dal passato incerto, sono i protagonisti di una storia che ne contiene al suo interno innumerevoli altre, di cui ancora una volta come lettori scegliamo la nostra personale chiave per tentare di arrivare al cuore della narrazione. Un romanzo che guarda al presente, si diceva, nei suoi aspetti più problematici e contraddittori: la Brexit, i cambiamenti climatici, la violenza verbale da cui siamo costantemente circondati, la riflessione sui migranti, la diversità, la discriminazione, l’odio, il razzismo, sono tra le tematiche attualissime e urgenti con cui Smith si confronta e noi con lei, cercando un punto di contatto, una chiave per comprendere, per interpretare un mondo che è sempre meno semplificabile. Non troviamo consolazione o risposte in queste pagine, ma nuove domande, punti di vista differenti da cui osservare la società in cui siamo immersi più o meno consapevoli. Allo stesso tempo senza cadere in sterili semplificazioni o sentimentalismi, ma osservando, interrogandosi, su vizi e storture che hanno radici ben più profonde di quanto generalmente si tende a immaginare. La discriminazione, per esempio, il razzismo, il pregiudizio, tematiche attualissime ma non certo riconducibili a una sola area geografica, etnia, specificità:
Sono irlandese. Ero irlandese negli anni Cinquanta. Ero irlandese quando essere irlandesi a Londra era come essere neri, come essere dei cani. Gli inglesi li conosco benissimo, io. (p. 63)
Paddy, che forse è il personaggio più straordinario del romanzo – e per la quale questo spazio non basterà – usa le parole come lame, si interroga e indigna per i mali del mondo, esprime a voce alta la propria opinione, forte del diritto che con fatica si è guadagnata facendosi strada in un mondo che in un modo o nell’altro era portato a escluderla, discriminarla, metterla da parte. Paddy, che sceglie le parole con cura:
Smettila di chiamarla crisi dei migranti, ha detto Paddy. Te l’ho ripetuto un milione di volte. Sono persone. Si tratta di singoli individui che attraversano il mondo sfidando le avversità. Singoli individui moltiplicati per 60 milioni che attraversano il mondo, sfidando avversità che si fanno di giorno in giorno più insormontabili. La crisi dei migranti. Proprio tu che sei figlio di una migrante. (p. 64)
E non dimentica le proprie origini, la personale lotta per l’integrazione. Migranti, persone: un’umanità sofferente, che si scontra con il pregiudizio, con la paura, con la precarietà economica e morale di questo nostro tempo. Lì, in quei centri – mi rifiuto per questo caso di utilizzare le parole “di accoglienza” – , isolati, in condizioni igieniche vergognose, un giorno dopo l’altro si perde un pezzo di umanità, da un lato all’altro delle sbarre.
Accorgersi di un fiore che spunta tra le siepi a separare il mondo fuori dall’orrore lì dentro, è il solo modo, per Brittany, di conservare la propria umanità, che rischia di frantumarsi in quel luogo che le garantisce uno stipendio. Eppure, un pezzo dopo l’altro, anche lei rischia di perdersi.
Richard, anziano regista che ha conosciuto un certo successo, ha perso invece la propria stella polare, Paddy, e con lei rischia di smarrire anche sé stesso, preda di una crisi esistenziale e professionale che lo porta ad accarezzare l’idea di mettere fine a ogni cosa:
Non appena un treno passerà e si fermerà in questa stazione, lui si infilerà nello spazio tra il treno e il binario, si stenderà su queste belle rotaie tanto ben tenute, accanto alle ruote, e lascerà che il vagone sotto il quale si sarà disteso metta fine alla sua esistenza con il peso della sua inarrestabile spinta in avanti. (p. 53)
Quella spinta in avanti che sembra mancare a lui, preda dei propri fantasmi, delle persone che ha amato e perduto, dello svilimento del proprio lavoro artistico, dell’indifferenza che lo circonda. Paddy sta morendo, Paddy è già morta, in questa narrazione che, si diceva, rompe ogni regola e convenzione, in un susseguirsi di attimi, pensieri, per i quali la cronologia non conta, come non conta la suspense.
Quello che conta, quello che a mio avviso è il vero cuore di questa storia, sono le connessioni umane: Ali Smith in Primavera mi ha ricordato la sensibilità umana di Elizabeth Strout, lo sguardo compassionevole e pieno di grazia, il desiderio di non perdere la capacità di vedere la bellezza. Primavera è speranza, speranza in un mondo complesso, pieno di odio, violenza, eppure allo stesso tempo capace di generare bellezza, di rinascere. Un mondo dove non smetteranno mai di contare gli affetti, i legami che vanno oltre il sangue, la solidarietà e la ribellione verso un sistema corrotto e violento, dove alla brutalità è necessario contrapporre la disperata bellezza di una giornata di Marzo, che «in gaelico è la primavera invernale», dove esistono l’arte, i libri, la conoscenza. Le connessioni umane, quelle inspiegabili che portano tre personaggi tanto diversi a condividere parte del viaggio, quelle forse solo immaginate ma che danno lo spunto per inventare nuovi significati – e aprire la narrazione ad altri rimandi letterari, nel mancato incontro tra due grandi scrittori del passato, Katherine Mansfield e Rainer Maria Rilke.
Ha scritto un romanzo potente Ali Smith, un romanzo che scava dentro di noi e ci costringe a guardare là dove non vogliamo, ci costringe a sforzarci come lettori e come esseri umani. E di questo, ancora una volta, non possiamo fare a meno di esserle grati.
Di Debora Lambruschini