di Thomas Girst
traduzione di Daniela Idra
add editore, 2020
pp. 192
€ 16,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
Non è facile salvaguardare le cose in maniera duratura. Ciò appare chiaro non soltanto dal tentativo di conservare le piante commestibili importanti per la sopravvivenza della nostra specie, ma soprattutto dagli enormi problemi che comportato lo stoccaggio finale delle scorie radioattive. Queste, per oltre 10.000 anni, rimangono un serio pericolo per l’umanità. (p. 51)
Si dice spesso che la nostra è l’epoca dell’instabilità e della
caducità. Un esempio fra tutti che ho ritrovato in ben due testi letti
ultimamente – Cronofagia di Davide
Mazzocco (D Editore, 2019) e Manuale di autodistruzione di Marian Donner (il Saggiatore, 2020; qui la recensione) –
è quello dell’obsolescenza programmata nei prodotti tecnologici. Oggetti che
tendenzialmente potrebbero durare cinque o sei anni vengono progettati
e fabbricati con componenti volti a deteriorarsi nel giro di non molto
tempo, così da alimentare la catena produttiva e muovere il mercato. Lo stesso vale
per il mondo del lavoro, in cui il precariato e l’insicurezza la fanno da
padroni. Ancora, si afferma che questa è un’epoca in cui il sostituire prevale
sul riparare, e poco importa che ci si riferisca agli oggetti o alle relazioni.
Ecco quindi che Thomas Girst, consapevole di quest’aspetto
così effimero della nostra epoca, si ritrova a documentarsi su «opere d’arte,
esperimenti scientifici, progetti che hanno sfidato il tempo» (dalla bandella
di sinistra). Il suo libro inizia con la monumentale e stupefacente opera del
portalettere Ferdinand Cheval, che fra il 1879 e il 1912 (in «10.000 giorni,
93.000 ore, 33 anni di fatiche», p. 13) ha eretto un enorme edificio (qui la voce su Wikipedia)
utilizzando solo le proprie forze e i ciottoli, le conchiglie e le pietre
rinvenuti durante i suoi spostamenti quotidiani. Prosegue con le capsule del
tempo, destinate a venire aperte centinaia di anni dopo per raccontare qualcosa
di chi le ha costruite, e ancora con ricette culinarie provenienti dal XV
secolo e riproposte nel ristorante stellato Dinner, affacciato su Hyde Park; si può continuare con i tentativi
dei multimilionari di farsi crioconservare dalla ditta Alcor, o con gli esperimenti
sulla pece, le cui gocce cadono a intervalli di oltre dieci anni.
Nei ventotto capitoli del libro vengono esplorate tutte le
arti, le discipline, le scienze, tantissimi ambiti della cultura. Girst compie un meraviglioso viaggio intorno al mondo, andando a cercare quelle
opere d’ingegno che, a volte al limite della stravaganza, gettano un sasso nel
lago oscuro della temporalità.
A rifletterci bene, il rapporto fra l’oggi e il domani è
tema antichissimo: basti pensare a strutture come le piramidi, destinate a far
echeggiare per l’eternità lo status divino dei faraoni. Oggi però, che i mezzi di
comunicazione e tecnologici sono esplosi, offrendo molte più possibilità in
qualsiasi settore possibile, risulta ancora più affascinante osservare come gli
esseri umani si impegnino per lasciare una traccia di sé. Davanti a una
prospettiva di vita di circa ottant’anni, con la possibilità di guardare
indietro nel tempo grazie a filmati, audio, fotografie, la sfida contro il
tempo assume proporzioni eroiche. Leggendo i vari capitoli del libro di Girst
non si può non restare a bocca aperta. Viene anzi la voglia
di segnarsi tutti i luoghi in cui sono situate le opere e le situazioni da lui
descritte per avere un assaggio di quell’eternità a cui mirano.
Tutto il tempo del
mondo è un libro bellissimo. Tolta l’affettazione e la gravità di cui un
saggio sullo stesso argomento avrebbe potuto macchiarsi, e portate dinnanzi al
lettore le gargantuesche sfide al tempo attraverso un metodo rapsodico, che sa
quasi di antologia epica, Girst riesce a stupire e al contempo ad affrontare una tematica
fondamentale per l’essere umano, inserendo qua e là notevoli spunti di riflessione. Viene in mente, fra tutti, il passo del Discorso sul metodo di Cartesio che l’autore riporta: «è vero anche
che le nostre preoccupazioni debbono estendersi più in là del presente, che è
bene tralasciare cose che potrebbero forse arrecare qualche vantaggio ai
viventi, quando se ne vogliono fare altre che ne procurino di maggiori alla
posterità» (p. 111).
In fondo è questo ciò di cui abbiamo bisogno, in quest’epoca
di instabilità: di uno sguardo lungimirante rivolto a quel futuro che tanta
letteratura continua a vedere come cupo e irrimediabilmente corrotto. Sapere
che fra cento o duecento anni i nostri lontanissimi eredi potranno
ritrovare ciò che abbiamo lasciato ci può far ricredere sul modo in cui stiamo
affrontando il nostro presente. Girst questo lo ha capito, e da questo ha
tirato fuori tanto incanto.
David Valentini
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