Ha vinto il premio Campiello, ne è stato tratto uno spettacolo teatrale e a breve diventerà un film. È stato pubblicato tre anni fa, troppo poco tempo per essere già un classico. Ma L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio merita di essere letto e poi riletto, studiato, inserito nei programmi accademici, come esempio della migliore narrativa italiana di inizio millennio. E lo sarà senz’altro, perché dei classici L’Arminuta ha la proprietà dell’universalità.
Sebbene l’ambientazione abruzzese– selvatica, aspra, solo a tratti marittima e urbanizzata – e le occorrenze dialettali connotino il romanzo, la storia parla a tutte e a tutti, con un’onesta spietatezza. Fin dalle prime pagine, senza mezzi termini, il romanzo ci porta a fare i conti con una paura atavica: essere abbandonati dalla madre. L’indagine sulla maternità scivola poi pagina dopo pagina in un’indagine sulla sorellanza. Le parole sono nette, pulite, vere: lasciamo che siano loro a farvi venire voglia di leggere il resto del libro.
L'Arminuta
di Donatella Di Pietrantonio
Einaudi, prima edizione 2017
pp. 176
€ 12,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
Capitolo 9, pp. 27-29
– Non ci stavi contenta alla città? – mi ha chiesto Vincenzo a bruciapelo.
Eravamo nella rimessa seminterrata della palazzina. In un mucchio informe contro le pareti ceste sfondate, cartoni ondulati dall’umidità, un materasso bucato da cui fuoriuscivano bioccoli di lana.
Una bambola senza testa in un angolo. Nel poco spazio centrale noi ragazzi sbucciavamo e tagliavamo a pezzetti i pomodori per la conserva, ma io ero la piú lenta.
– Non l’ha mai fatto, la signorina, – mi aveva già derisa in falsetto un fratello.
Il piccolo ha affondato un braccio nel secchio degli scarti e se li è portati alla bocca. La madre non c’era in quel momento, era andata a prendere qualcosa.
– Allora? Perché sei tornata ecco? – ha insistito Vincenzo indicando tutto intorno con un gesto rosso.
– Non l’ho mica deciso io. Mia madre ha detto che ero cresciuta e i veri genitori mi rivolevano indietro.
Adriana ascoltava attenta con gli occhi su di me, non aveva bisogno di guardare le mani e il coltello che stava usando.
– Scí, proprio! Levatelo dalla coccia, a te ecco non ti si sognava nisciuno, – ha detto Sergio, il piú crudele. – A ma’, – ha strillato poi verso l’esterno, – per davvero te la sei ripigliata tu ’sta sturdullita?
Vincenzo l’ha spinto con un braccio e l’altro è caduto sghignazzando dalla cassetta di legno capovolta su cui sedeva. Con il piede ha urtato un recipiente pieno a metà e alcuni pomodori già pelati sono finiti sulla gettata di cemento, nella polvere. Stavo per buttarli tra gli scarti senza pensarci, Adriana me li ha tolti appena in tempo, con una mossa svelta da adulta. Li ha sciacquati e strizzati prima di rimetterli dentro il pentolone. Si è voltata a fissarmi in silenzio, avevo capito? Non si doveva sprecare niente. Ho accennato di sí con la testa.
La madre è tornata con le bottiglie pulite da riempire. In ognuna aveva già inserito una foglia di basilico.
– Oddio, ma che tieni le cose tue oggi? – mi ha chiesto brusca.
Ho risposto troppo piano per la vergogna.
– Eh? Le tieni o non le tieni? Ho ripetuto di no con il dito.
– Meno male, che sennò ecco si fracicava tutto quanto. Se ti vengono, certe faccende non le puoi fare.
Sul fuoco acceso in un angolo tra la palazzina e la scarpata di terra, le bottiglie di salsa avevano appena finito la bollitura a bagnomaria in un grosso paiolo. Vincenzo si è ripresentato con un mezzo sacco di pannocchie, guardandosi le spalle. Ha finto di non sentire chi gli domandava dove le aveva prese. Le abbiamo ripulite delle barbe e dei cartocci, i chicchi dentro erano teneri e sprizzavano latte a tentarli con l’unghia. Guardavo gli altri e facevo come loro. Il margine di una foglia mi ha tagliato la pelle ancora troppo morbida.
Vincenzo le ha arrostite sulla brace rimasta, girandole di tanto in tanto a mani nude, con un rapido tocco dei polpastrelli callosi.
– Se si abbrusciano un po’, sono piú buone, – mi ha spiegato sorridendo di sbieco.
Ha passato la prima davanti alla faccia di Sergio che l’ha creduta sua, invece è arrivata a me. Mi sono scottata.
– C’ho piacere, – ha borbottato Sergio aspettando il suo turno.
– Le avevo mangiate solo qualche volta, ma lesse. Cosí sono molto piú gustose, – ho detto.
Non mi ha sentita nessuno. In silenzio ho aiutato Adriana a lavare e riporre nella rimessa tutti i recipienti usati per la salsa.
– Lascialo perdere a Sergio, quello è cattivo con tutti.
– Magari ha ragione lui, forse non sono stati i tuoi genitori a chiedermi indietro. Ormai ne sono certa, sto qui perché mia madre è malata. Ma scommetto che viene a riprendermi, quando guarisce.
Serena Alessi
@serealessi
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