Stella nera - Frammenti di una vita a due
di Marisa Bulgheroni
Il Saggiatore, settembre 2020
112 pp.
€ 15 (cartaceo)
Sì: storia di una morte e, attraverso di essa, di un amore, di un matrimonio poco coniugale, storia nella storia che abbiamo attraversato: dagli anni Venti al primo decennio del Duemila, impavidi, smarriti, tenaci nel ritrovarci. Tu, garante della mia vita. Io, soggetto nella tua. Che cosa c’era in me di tanto amabile? Le mie nipoti dicono, scherzose: “i nostri mariti sono tanto bravi ragazzi, ma il tuo ti adorava”. Ho meritato un amore così grande? Mi dissi: sì, forse l’ho meritato solo quando in quei tuoi ultimi giorni, sacri come un avvento, non tetri come una morte, mi fu chiaro che ero pronta a seguirti fin dove mi fosse stato concesso, fin oltre la soglia tra la vita e la morte: fin dove la stella nera aveva trafitto per sempre il mio cielo. (p. 98)
Ho versato le prime lacrime a pagina dodici. Nella narrazione di sessant’anni di matrimonio, di sessant’anni di Marisa ed Ennio, la scrittrice parte dalla fine, dagli ultimi giorni che sono stati dati loro. Dopo la diagnosi di melanoma, la loro ultima vacanza, e infine la malattia che progressivamente mangia il corpo del marito, mentre lei si fa più vicina, riempie i vuoti della carne, lo sostiene. Finché anche le due forze congiunte non bastano più, e una si spegne. E l’altra resta da sola.
“Come può una farfalla volare con un’ala sola”, si chiede la Bulgheroni. Ma la percezione che il lettore ha, leggendo le piccole istantanee dei ricordi di una vita insieme, alternate alla vita di Marisa senza più Ennio, è che tra le due fasi non ci sia soluzione di continuità, l’infinita apostrofe del “tu” non si interrompe mai. La presenza di Ennio in ascolto è forte, nel passato e nel presente, nel ricordo e nella narrazione. Ogni sua parola di scrittrice, scelta con amore, è rivolta a lui. Una conversazione intima, sul filo tra il parlato e lo scritto, in cui il lettore non può che sentirsi un po’ in imbarazzo, un po’ di troppo. Eppure noi serviamo, corpi vivi, casse di risonanza per portare la voce della Bulgheroni in alto, dove quel “tu” la potrà percepire.
Ho pianto subito, eppure io non piango mai per i libri. Non piango mai nella lettura, ma piango spesso per i film. Ho bisogno di voci, di immagini, di musiche per piangere. Ho trovato tutto questo nel racconto del distacco che apre il libro, un distacco che ci allontana dal nostro mondo così individualista e affollato allo stesso tempo per entrare nel mondo chiuso del matrimonio, “isola linguistica” di cui la Bulgheroni vuole insegnarci la grammatica. La voce potente, una parola nuda, un racconto autorigenerante di Marisa che cerca la voce di Ennio, che vuole suscitare la sua risposta: e un aneddoto richiama l’altro, e si ha quasi la percezione che la fine del libro sia solo una pausa, che l’ultima pagina sia solo Marisa che si versa un bicchiere d’acqua e lo sorseggia, per poi ricominciare a raccontare.
E mentre la Bulgheroni raccontava, saltellando tra gli anni e gli avvenimenti, io, non so quando, ho smesso di piangere. Quasi sorridevo, nel leggere le contraddizioni di una vita così straordinaria e ordinaria allo stesso tempo, le idiosincrasie che in molti punti sembravano prese da un vocabolario amoroso che ho consultato anche io. Ma anche quando le lacrime si sono fermate, la stretta al cuore non mi lasciava. Una stretta che conosco bene, la folle, insensata paura di chi ama ed è amato di restare solo. Una paura che anche la Bulgheroni racconta di aver provato, anche prima che arrivasse la malattia, quella “stella nera” sulla spalla. Ora Marisa non ha più paura. Ennio non è morto, è solo “partito”, come faceva spesso nel loro amore “così poco coniugale”, ricco di viaggi, separazioni e ricongiungimenti. Le parole curano un po’ la ferita, la cicatrizzano, anche se sotto la cicatrice rimane un vuoto. Che solo la risposta di Ennio al lungo monologo amoroso di Marisa può riempire.
Marta Olivi
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