di Charlotte Wood
NN Editore, 2020
Traduzione di Chiara Baffa
€ 18 (cartaceo)
È esattamente il tempo di un weekend – al mare davanti casa per la precisione – quello che immaginavo ci volesse per godere di questa lettura, dato il numero contenuto delle pagine e considerando, erroneamente, la leggerezza – che ancora una volta mi trovo a ribadire non intendere come superficialità – della storia. Non ho sbagliato i tempi di lettura, in effetti, ma mi sono piacevolmente sorpresa di fronte a un romanzo che si è rivelato ben più interessante, ricco di spunti, riflessioni e punti di vista originali su argomenti in un certo senso familiari, di quanto inizialmente si sarebbe portati a pensare, scorrendo magari velocemente la quarta di copertina o la presentazione del libro. Vero anche che pescando pure a caso nel catalogo NN editore è raro scivolare in qualche delusione e infatti anche questa volta, con Charlotte Wood, una delle più importanti scrittrici australiane contemporanee, la casa editrice milanese ha fatto centro.
Il weekend, con una narrazione puntuale, le vivide pennellate a descrivere luoghi e oggetti, i pensieri e i dialoghi delle protagoniste – tutto magistralmente reso dalla traduzione di Chiara Baffa – cela appena sotto la superficie di apparente leggerezza, un intreccio di trama e spunti di riflessione da cui restare avvinti. Le premesse della storia sono piuttosto semplici: alla scomparsa di Sylvie, Jude, Adele e Wendy, settantenni legate da tutta la vita, si ritrovano nella casa al mare dell’amica, in un lungo weekend che precede il Natale, per svuotarla di oggetti e ricordi, prima che sia messa in vendita. Una perdita che le ha scosse profondamente, mettendo in pericolo il fragile equilibrio della loro stessa amicizia, che senza Sylvie ora, dopo quarant’anni, sembra andare alla deriva, mentre dissapori e personali sofferenze si insinuano fra loro.
[…] Erano state attratte dalle rispettive orbite, era nato l’amore e non si erano più lasciate. Eppure quella forza di gravità si era piano piano affievolita. E adesso vagavano alla deriva. Da quando Sylvie non c’era più, era come se Adele, Wendy e Jude fossero male assortite. (p. 69)
Ecco, una trama apparentemente semplice, forse anche un po’ banale, se osservata così in modo superficiale. Ma Il weekend è un romanzo tutt’altro che banale e quando erroneamente crediamo di aver inquadrato la storia, i personaggi, Wood si diverte a mescolare le carte, rivelando dietro l’apparente stereotipo con cui aveva fino a quel punto giocato, l’universo intimo, complesso, di ogni personaggio, insinuando dubbi, svoltando bruscamente verso una nuova direzione della storia, fino alle sorprendenti battute finali. Ed è una trama retta perfettamente da una narrazione che sceglie l’alternanza dei tre punti di vista differenti, in un susseguirsi di pensieri, introspezione, parole inespresse e dialoghi che talvolta collidono con quanto invece provato dai personaggi come se nell’espressione verbale dei propri pensieri e sentimenti avvenisse una sorta di tradimento e ciò che infine diciamo agli altri – con le parole, gli sguardi, il linguaggio non verbale – sia ancora una volta fonte di equivoco e conferma dell’impossibilità di comprendersi davvero.
Sono soprattutto le domande, cui quasi mai Wood fornisce una risposta, tra le chiavi di lettura più intriganti del romanzo, il mezzo con cui confrontarci non solo con le protagoniste della vicenda, sia quelle che appaiono sulla scena in carne ed ossa che quelli soltanto evocati ma ugualmente importanti, ma anche e più di tutto con le nostre personali convinzioni, il nostro sguardo sulle cose, certe idee e preconcetti su cui almeno una volta si tende a inciampare. La vecchiaia, per esempio. Uno dei temi portanti del romanzo, intorno a cui molto ruota, che Wood racconta con ironia e sincerità. C’è il corpo, che tradisce lo sguardo e non sempre risponde come si vorrebbe, quel corpo che si è provato a controllare, mostrare con orgoglio o noncuranza, su cui portare i segni della vita che c’è stata, delle ferite, attraverso cui mostrare chi siamo, ma che ora, troppo spesso, diventa un limite:
A volte lo sforzo necessario per muovere il suo corpo nello spazio la sorprendeva e la demoralizzava. In giornate così le sembrava che il suo corpo fosse un piumone zuppo d’acqua che le toccava trascinarsi dietro; avrebbe tanto desiderato scrollarselo di dosso e lanciarsi di scatto verso le ore che la aspettavano. Per essere in grado di lavorare senza intoppi, la sua mente esigeva leggerezza, velocità. Non poteva permettere all’insolente inadeguatezza del suo corpo di rallentarla. (p. 105)
La vecchiaia che spaventa, per il decadimento del fisico, certo, ma anche e soprattutto per quello che ci si è lasciato indietro, per quello che si è perso, per ciò che ormai non può più essere salvato. Forse nemmeno la loro amicizia, un tempo così solida quando c’era Sylvie a mantenere gli equilibri, ma che ora, in quel weekend che sembra esacerbare dissapori e differenze, rischia di andare alla deriva. È un’amicizia che dura da tutta la vita, nonostante certe distanze e caratteri tanto diversi, e come tale ha le sue zone d’ombra, le divergenze, i segreti a lungo tempo taciuti, gli equilibri fragili, un ruolo da recitare per evitare che tutto imploda. Jude la maniaca del controllo, algida, pungente, che guida i lavori del weekend con piglio militare: eppure appena sotto la superficie Jude nasconde da sempre mari in tempesta, fragilità e attenzioni verso gli altri che non sa esprimere a parole; Jude, raffinata, attenta alle apparenze, che non ha mai esplicitamente ammesso con nessuno, nemmeno con le sue amiche, di vivere da tutta la vita il ruolo dell’amante. Giorni e briciole di tempo rubati in trent’anni di relazione, la voragine delle assenze, quel tempo sospeso in attesa del ritorno:
Era come se Jude esistesse sempre in due dimensioni parallele: quella in cui era lì con loro, e l’altra, un’intera esistenza vissuta con – senza – Daniel. Adele lo capiva perfettamente. C’era una vita visibile a tutti, che si svolgeva nel mondo materiale, e un’altra, più intima: il regno dell’emozione, in cui si acquisivano le conoscenze davvero importanti e aveva luogo la vita vera. (p. 92)
Wendy, l’intellettuale, femminista, vedova del grande amore della sua vita. I figli lontani, emotivamente da tutta la vita. Il cane Finn, di cui si prende cura – facendo impazzire soprattutto Jude – ostinatamente decisa ad ignorarne la vecchiaia, il decadimento, ultima ancora di salvezza nella deriva della solitudine. Wendy, che tanto tempo prima ha “tradito” sé stessa e le aspettative degli altri tornando a casa:
Alcune persone dicevano che sarebbe dovuta restare più tempo negli Stati Uniti, che avrebbe dovuto avere più coraggio, che aveva deluso le compagne per correre a casa da un uomo, che aveva preferito fare la madre. (p. 179)
Rinunciando ad insistere, ad avere più coraggio, per ritrovare una dimensione però a lei più consona, quella che la rendeva felice. E quella rinuncia sì, che sarebbe stato il tradimento peggiore, rinunciare alla propria idea di felicità per accontentare le aspettative degli altri. Wendy e Lance, che grande amore, ma davvero conoscevano tutto l’uno dell’altro? Dei malumori, dei pensieri che non si possono esprimere, delle mancanze e fragilità?
Le fragilità, del corpo e dell’anima, che Adele nasconde dietro i sorrisi e l’allegria forzata, nello sforzo di ingannare il tempo, nell’attesa che torni ancora la sua occasione di brillare, bellissima e piena di talento a dominare la scena come quando era una giovane promessa del teatro. Adele, che vive ancora come una studentessa d’arte drammatica, ma che ha perso tutto: le occasioni lavorative, il denaro, la sicurezza della relazione con Liz che ormai l’ha messa alla porta. Che cosa resta? Quel weekend, dove vengono a galla tutte le sue insicurezze, la disperazione, quel timore atavico di non essere all’altezza delle sue amiche, di non averne mai avuto il rispetto.
Sono tre donne che fanno i conti con i propri fantasmi e con quello di Sylvie, le paure che si specchiano negli occhi vacui di Finn, quel povero vecchio cane che le costringe ad affrontare i ricordi, il dolore, le domande restate senza risposta, con un tocco di realismo magico che mi ha piacevolmente sorpreso. Le domande, appunto, che restano sospese, perché non è compito della letteratura fornirci le risposte, bensì spingerci a scavare, a porci noi stessi le domande e, forse, trovare le nostre risposte.
Due sono gli interrogativi complementari che più prepotenti di altri ho avvertito uscire dalla pagina: che cosa scegliamo di nascondere a noi stessi? e cosa scegliamo di mostrare agli altri? Wendy, Jude e Adele come noi lettori si interrogano, arrancano, sbagliano, fanno le proprie scelte e tentano di dare un senso al mistero della vita, uno sguardo a ritroso su quello che è stato e che forse, proprio adesso, in quel weekend, può assumere nuovi significati. Cosa nascondiamo a noi stessi, quindi? E cosa comporta? La maschera che indossiamo, il volto che mostriamo agli altri, che cosa resta una volta che ce ne liberiamo, che ci spogliamo di finte sicurezze, sorrisi tirati, stereotipi e perbenismo? Restano tre donne, un’amicizia che nonostante tutto va avanti da tutta la vita, il ritratto meraviglioso e reale che ne fa una scrittrice di talento, capace di raccontarne le sfumature, le zone grigie. E, infine, ancora inaspettato, un “messaggio” che la stessa Chiara Baffa ha sottolineato nella bella Nota del traduttore con cui tutti i testi NN si chiudono, una chiave di lettura che mi ha particolarmente colpito: quel senso di possibilità, di cambiamento perfino, cui ostinatamente si aggrappano queste settantenni che hanno alle spalle più vissuto di quanto potrebbe restare loro davanti, ma che sono ancora pronte a mettersi in gioco, a sentire che c’è una nuova possibilità, un istinto, un cambiamento possibile. Anche quando tutto va in pezzi. Ecco, credo che in fondo sia proprio questo lo spunto più bello, quello squarcio di luce che sempre cerco in una narrazione.