L'ultimo traghetto
di Domingo Villar
Ponte alle Grazie, 2020
pp. 640
€ 18,50 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)
I lettori di Domingo Villar hanno dovuto aspettare dieci anni per vedere pubblicata una nuova indagine dell’ispettore Leo Caldas e del suo vice Rafael Estévez. Nel mondo editoriale contemporaneo un decennio è l’equivalente di un’era geologica. Un tempo sufficiente per essere dimenticato anche dall’algoritmo di Google. Ma di questo dettaglio né Villar, né il suo ispettore si sono curati. Il tempo, per loro, sembra essere servito per dare alla luce un romanzo corposo (oltre seicento pagine) e curato fin nei minimi dettagli. Dalla parte del lettore possiamo dire fin da ora che ne è valsa la pena.
Paragonato in Spagna al sancta sanctorum della negra spagnola, Manuel Vázquez Montalbán, Villar può risultare pressoché sconosciuto al lettore italiano. Per questa ragione è d’obbligo ripercorrere brevemente la sua storia. Nato a Vigo, in Galizia, L’ultimo traghetto è il suo terzo romanzo ed è la terza indagine dell’ispettore Leo Caldas. In Italia è stato tradotto da Ponte alle Grazie il suo esordio letterario, Occhi di acqua (2008), e da Kowalski il secondo La spiaggia degli affogati (2009), che è stato portato sul grande schermo nel 2015 da Gerardo Herrero e Carmelo Gómez. Tutti i suoi romanzi sono ambientati a Vigo e scritti in galiziano, per poi essere riscritti in castigliano dallo stesso autore. Questa è una pratica non comune, ma neanche unica nel panorama letterario e plurilinguistico spagnolo. Per fare un esempio, sempre nell’ambito del romanzo poliziesco, Andreu Martín scrive e riscrive tutti i suoi romanzi in catalano e spagnolo.
Ne L’ultimo traghetto, il vigués ispettore Caldas dovrà fare i conti con la scomparsa di Mónica Andrade, la figlia ribelle di un luminare della medicina galiziana. Pressato dal suo capo, il commissario Soto, e affiancato dal suo burbero vice aragonese Estévez, Caldas è costretto a iniziare una caccia nel buio con pochissimi elementi di partenza. Si tratta di un vero e proprio puzzle da ricostruire tessera dopo tessera, con l’inconveniente che le tessere le deve creare lo stesso ispettore. Mónica Andrade vive a Tirán, una località del comune di Moaña sulla sponda opposta della ría rispetto a Vigo. Quello di Tirán è un piccolo mondo antico, ancora legato a un’economia basata sulla pesca e l’allevamento di molluschi, che si raggiunge con un traghetto che copre la distanza tra la grande urbe e il porto in appena tredici minuti. Qui si apre a Leo Caldas un ventaglio di personaggi che, pur mantenendo intatta la loro unicità, condivide il piacere della solitudine e della vita ai margini della frenesia e del caos contemporaneo. Ben presto, però, l'ispettore si rende conto che è altrove che deve cercare gli elementi utili a risolvere questo caso, sul quale l'influente padre della scomparsa esercita pressioni e ingerenze che mettono alla prova la pazienza di Leo Caldas.
Rispetto ai precedenti capitoli, forse, si perde l’elemento musicale jazz, che era stato giustamente messo in evidenza dalla critica spagnola. Tuttavia, non si perde né si diluisce la profonda malinconia che pervade l’ispettore Caldas e la città di Vigo. Questa, come da manuale nella negra spagnola, assume il ruolo di personaggio aggiunto, andando oltre quello di sfondo. Anche i suoi dintorni, la ría, in cui il mare si fa spazio nella terraferma e con essa convive in un ambiente unico al mondo. La critica sociale è presente, ma non ostentata, anche in questo caso seguendo la tradizione iberica del poliziesco contemporaneo: meno gridato di quello italiano e che lascia al lettore il compito di leggere tra le righe e andare a scovare cosa non va nel mondo che ci circonda. Le riflessioni sugli angoli bui della società sono, infatti, affidate a personaggi secondari, tra cui val la pena ricordare un memorabile senza tetto, Napoleón, professore di latino caduto in disgrazia. Questi, in una certa maniera, viene a rappresentare la posizione marginale che ricopre la cultura umanista nelle nostre vite. La prosa, nella buona traduzione di Silvia Sichel, scorre, ma la lettura risente di un ritmo narrativo a tratti sincopato: Villar rende partecipe il lettore di tutti i colloqui, ragionamenti, dubbi e ripensamenti dell’ispettore Caldas, lasciando ben poco spazio ad analessi e prolessi, che spesso aiutano a dare maggiore agilità alla narrazione. In questo modo, il punto di vista è sempre quello del narratore onnisciente, che mai cede il passo a un narratore interno, come potrebbe essere il protagonista o uno dei tanti personaggi che incontra e interroga.
I contrasti tra l’ispettore Caldas il suo vice Estévez, aragonese doc, riproducono in piccolissima scala (quella dell’uomo corrente) le differenze regionali che intercorrono in un Paese diverso e plurale. E ci ricordano che vedere il mondo da punti di vista diversi costituisce una ricchezza e un’occasione di mettersi costantemente in discussione, aprendo il nostro orizzonte sul mondo ben al di là di quella che è la nostra zona di comfort. Domingo Villar lo spiega chiaramente in un’intervista al quotidiano Heraldo, quando dichiara che è attraverso lo sguardo di un aragonese (Estévez) che riesce a spiegare la Galizia. In un’epoca di nazionalismi chiusi e populismi ottusi questa è, forse, tra le lezioni più importanti che ci dà la serie Caldas.
Nonostante al suo attivo abbia solo tre romanzi, la critica che avvicina Villar a Vázquez Montalbán non è in errore. Senza contare che, nella stessa intervista citata poc’anzi, lo scrittore galiziano dichiara di riconoscersi in Vázquez Montalbán (ma anche in Camilleri, e traccia lui stesso un legame tra Vigo e Vigata), mentre in altre occasioni non nasconde l’importanza di personaggi come Pepe Carvalho, che assumono il ruolo di lente attraverso cui guardare periodi storici precisi. Da questi dettagli si evince chiaramente che il galiziano fa parte di quella razza di scrittori che attribuisce alla letteratura un ruolo storiografico che le appartiene di diritto.
Ciò che fa di Leo Caldas e Pepe Carvalho due personaggi figli della stessa madre letteraria è lo sguardo che hanno sul mondo: disilluso e pieno di quel desencanto (disincanto) che è la cifra della negra spagnola da quarant’anni a questa parte. Ma non solo, perché questo sguardo che Vázquez Montalbán ha creato per Pepe Carvalho è stato poi adottato da Izzo, Markaris e Camilleri, per fare solo tre esempi. Il caso ha voluto che tutti questi autori, e i loro personaggi, siano mediterranei. Per questa ragione ci si è erroneamente convinti del fatto che il disincanto sia una peculiarità mediterranea e si è creata l’etichetta di noir del Mediterraneo (errata nella sua stessa logica perché esclude tutta una serie di autori – Paco Taibo II, Leonardo Padura o Ramón Díaz Eterovic – in base a un parametro geografico). Ebbene, dopo la lettura de L’ultimo traghetto e dopo aver collocato Vigo sul mappamondo (l’Oceano Atlantico) spero sia evidente che la miglior definizione di questo tipo di narrativa forse è quella di “cronaca generale del disincanto”, come proposto da diverso tempo in ambito accademico spagnolo. E della cronaca generale del disincanto L’ultimo traghetto è uno dei romanzi più rappresentativi degli ultimi anni.
Alessio Piras
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