Romolo il grande. Una commedia storica che non si attiene alla storia in quattro atti
di Friedrich Dürrenmatt
Marcos y Marcos, 2011
pp. 177
€ 10,00 (cartaceo)
Traduzione di Aloisio Rendi
“È l’unica arte che ci possa servire in tempi come questi,
quella di guardare senza paura la realtà negli occhi
e di fare senza paura ciò che è giusto” (p. 124)
Grande contaminatore e dissacratore di generi letterari, Friedrich Dürrenmatt è forse più noto per i suoi polizieschi esistenziali (come La promessa, di cui trovate la recensione qui, La panne o Il giudice e il suo boia, anch’essi recensiti rispettivamente qui e qui). In realtà, altrettanto efficaci rispetto ai gialli sono le riscritture storiche o mitologiche, come La morte della Pizia, o questo Romolo il Grande, in cui le leggende o i fatti del passato vengono trasfigurati, smontati pezzo per pezzo, e assumono attraverso una puntuale analisi e un sistematico stravolgimento valenza universale.
In questo breve apologo che ha la forma del copione teatrale, l’autore mette in scena l’Impero romano nel momento del suo massimo declino.
I quattro atti di cui si compone il testo corrispondono a quattro diversi momenti dell’ultimo giorno dell’Impero romano d’Occidente e hanno perciò l’ineluttabilità di un conto alla rovescia. Mentre un solerte prefetto della cavalleria cerca di portare a Romolo Augustolo la notizia dell’arrivo di Odoacre, l’ultimo imperatore temporeggia e fa colazione, informandosi sullo stato delle proprie galline, che portano i nomi dei grandi personaggi del passato e del presente (“Come osi parlare di pollame mentre il tuo impero vacilla e i tuoi soldati stanno facendo per te i più grandi sacrifici!”, lo apostrofa violentemente la moglie Giulia, al che Romolo risponde serafico: “È assolutamente giustificato da quando le oche hanno salvato il Campidoglio”, p. 35). Grazie a dialoghi sferzanti e rapidissimi, il lettore si trova di fronte all’evidenza di un regno paralizzato da una burocrazia insensata, con le casse dello Stato completamente vuote, forte soltanto del proprio lascito di civiltà. Eppure la tradizione appare in qualche modo svuotata di senso, di fronte al presente che preme e incalza, e il destino si legge ora nei prodotti del pollaio (quindi la gallina Odoacre, l’unica a fare tre uova, segnala inequivocabilmente l’imminente successo del condottiero omonimo). Romolo Augustolo sa che non farà una grande figura con i posteri, ma è anche l’unico a inquadrare con precisione, e anche con un certo cinismo, lo stato delle cose: non è disposto quindi ad accettare compromessi, ad attivarsi per la mobilitazione totale, o a vendere sua figlia a un ricco imprenditore che propone di salvare Roma con il suo denaro (e l’importazione dei calzoni germanici): “Dobbiamo scegliere tra il capitalismo e la catastrofe, e non mi pare che l’uno sia molto meglio dell’altra” (p. 120), chioserà a un certo punto. Poco gli importa, tutto considerato, di passare per il disonore dell’Impero ed essere totalmente incompreso da chi ancora si riempie la bocca della retorica imperiale:
ZENONE: Se tua figlia non si sposa al più presto, sarà la fine del mondo.
ROMOLO: Sarà la nostra fine, vorrei dire. C’è una bella differenza.
ZENONE: Noi siamo il mondo, Romolo.
ROMOLO: Noi non siamo altro che piccola gente di provincia, soverchiati e sopraffatti da un mondo che ci è ormai incomprensibile. (p. 63)
La verità della guerra in corso è qualcosa che non pertiene alla finzione, a quell’enorme scenografia decadente che è il palazzo di Romolo. Per questo il dramma cresce nelle pagine che vedono in scena Emiliano, ex prigioniero dei Germani e promesso sposo di Rea, la figlia dell’imperatore. Dopo anni di tortura, a stento riconoscibile, Emiliano non crede più in niente. È quindi voce caustica e disillusa, che si unisce a quella più rassegnata dell’ultimo dei Cesari. Come Kublai Khan nelle calviniane Città invisibili, Romolo si fa raccontare dal viaggiatore cosa accade nelle periferie dei suoi possedimenti, ma quello che emerge dalla narrazione non sono le molteplici meraviglie, quanto piuttosto la miseria del suo regno, la povertà delle sue genti.
A dispetto di chi lo ha considerato uno sciocco, più attento alle esigenze del corpo che dell’Impero, Romolo Augustolo contrappone la visione amara e lucida di chi sa che non c’è più nulla da salvare, che l’amore di patria, portato al suo estremo, ha obnubilato le menti dei cittadini romani al punto da non permettere più loro di percepire il degrado e la corruzione che li avvolgono:
Il nostro amore per Roma non l’ha resa buona. Le nostre virtù son servite ad allevare una belva. Questa visione di grandezza della nostra patria ci ha inebriati come un vino generoso, ma adesso ciò che abbiamo amato in lei si è tramutato per noi in altrettanto fiele. (p. 122)
Gli interessi di Stato non possono venire prima delle persone, ci ricorda un disilluso Romolo, e rispetto al veleno che la consuma dall’interno, i barbari non sono più un pericolo, ma la soluzione. La verità però è scomoda a molti, come si evince dalla scena tragicomica che si consuma di notte nella camera dell’imperatore (di cui non si può dir di più per non rovinare il gusto della lettura). In Balkan Baroque Marina Abramović sedeva su un mucchio di ossa insanguinate, che continuava vanamente a cercare di pulire. Similare è l’immagine evocata di un trono innestato su una pila di teschi, di una Roma traditrice e dimentica di se stessa. E il discorso del re diventa straordinariamente serio, e straordinariamente applicabile al presente. Eppure, come sempre nelle opere di Dürrenmatt, ogni certezza del lettore prelude sempre a un rovesciamento, ogni piano viene disatteso al momento della resa dei conti. Anche questo breve testo non si smentisce, nel momento del confronto finale che vede contrapposto Romolo il grande al suo acerrimo nemico, il generale Odoacre (l’uomo stavolta, non la gallina).
In una breve nota conclusiva, Dürrenmatt ci aiuta a capire come interpretare questo “giudice del mondo travestito da buffone” (p. 177), ma non si sofferma sulla pungente satira politica che ha sviluppato, che risulta chiara al lettore nella ricchezza delle possibili letture. Romolo il grande rivela infatti una fortissima carica di attualità, dalle battute caustiche sulle diverse cariche politiche e chi le ricopre alle considerazioni sul valore delle notizie e il loro impatto sulla popolazione:
Non sono le notizie a sconvolgere il mondo. Sono i fatti, e quelli non possiamo cambiarli perché sono già accaduti quando le notizie arrivano. No: le notizie non fanno altro che eccitare il mondo. È bene perciò abituarsi a farne a meno. (p. 27)
Non sempre si può condividere in toto l’esposizione esacerbata, iperbolica, la visione del mondo manichea di Romolo, tuttavia sempre si è portati alla riflessione critica, al pensiero vivo proiettato al contemporaneo. E, alla fine, non si potrà che provare simpatia, nel senso etimologico del termine, per un uomo che ha fatto dell’inazione la sua forma particolare di ribellione al sopruso e alla violenza di un regno.
Carolina Pernigo