di Régis Jauffret
Edizioni Clichy, settembre 2020
Traduzione di Tommaso Gurrieri
pp. 200
€ 17 (cartaceo)
Un titolo, un fotogramma ripetuto sei volte come copertina, un sottotitolo e l’epigrafe «la realtà giustifica la finzione» (p. 9) come elementi costitutivi del nuovo libro di Régis Jauffret, apparentemente semplice e immediato, ma che invece, durante un’attenta lettura, rivelerà tutta la sua complessità e derivata bellezza.
Il titolo – Papà – si fonde con il fotogramma. Un uomo viene trascinato fuori da un palazzo da due personaggi che si avviano verso una Citroën a trazione anteriore. I due uomini si rivelano essere agenti della Gestapo. Il palazzo è quello in cui Régis Jauffret è nato e cresciuto a Marsiglia. E la persona catturata è il padre dell’autore, Alfred Jauffret. Sette secondi di video che appaiono per caso durante un documentario televisivo sulla Francia di Vichy e sulle rappresaglie dei nazisti nella zona libera francese durante la Seconda guerra mondiale hanno cambiato la vita del rinomato scrittore francese per sempre. In quel lasso di tempo, Régis Jauffret si rende conto di non conoscere affatto quell'uomo che per tanto tempo aveva chiamato “papà”:
Avevo la sensazione di aver seppellito un personaggio secondario della mia vita. Avevamo parlato così poco, fatto così poche cose insieme e non mi aveva mai dato l’impressione di essere un uomo da cui in caso di bisogno avrei potuto sperare di ottenere il minimo aiuto. In realtà non avevo affatto avuto un padre, o quasi. Nell'infanzia avevo dovuto contentarmi di un pezzettino di papà come un bambino a cui si getta un ottavo di un quadrato di cioccolata per mangiarlo con il pane a merenda. Tanto vale mangiare pane secco. Nemmeno un ottavo di padre, qualche briciola, un pizzico di papà. (p. 31)
Quel microfilmato apre una voragine nel passato di Alfred, il quale genera una continua sensazione di vuoto, una costante «sete di un padre» in Régis. Padre che, di fatto, non ha mai avuto. Chiuso in se stesso, anaffettivo, egoista, reso irascibile da giovane a causa della precoce perdita dell’udito e dalle varie frustrazioni della vita, Alfred non si è mai ritagliato del tempo per costruire un rapporto con il proprio figlio. Le lacune lasciate da questa mancanza iniziano a far male e a sanguinare come ferite dopo l’ennesima scoperta riguardo al passato oscuro e misterioso del proprio padre. Allora, Régis torna indietro, cerca di riavvolgere il nastro, ritorna sui propri passi e tira fuori tutti i ricordi di famiglia dal cassetto e dalla memoria: con un andamento stilistico degno di un memoir, ripercorre la relazione tra Madeleine e Alfred, il loro matrimonio e il viaggio di nozze, la sua nascita, il rapporto con sua madre, appartenente al bigotto mondo borghese di Marsiglia, e con suo padre, pura assenza.
Ma se le mancate attenzioni e dimostrazioni d’amore da parte di Alfred erano sopportabili, la rivelazione che scaturisce dal documentario diventa l’ultima goccia che fa traboccare il vaso:
Ho paura di indagare, di scoprire che forse Alfred aveva denunciato qualcuno. Si dice che chiunque parli sotto tortura. Vorrei tanto che si fosse comportato da eroe. Alla luce del documentario lo storico non ha nessuna certezza. (p. 25)
Il sottotitolo – romanzo – si unisce all'epigrafe «la realtà giustifica la finzione». In vita, Alfred non ha mai accennato a Régis né a Madeleine dell’arresto. Da qui, sorge un dubbio lacerante nella coscienza dell’autore. Suo padre era una vittima o un persecutore? La narrazione inizia ad oscillare tra la ricostruzione della figura di Alfred come un possibile eroe della storia francese durante l’invasione nazista e come un’eventuale spia che collaborava con la Gestapo per la repressione degli oppositori. L’oscillazione tra i due poli opposti si trasforma in tortura per Jauffret. Ed è a questo punto che si passa dal memoir al romanzo:
A cosa servirebbe rievocare il padre morto una trentina di anni prima se fosse con il crudele e pretenzioso progetto di volerlo far apparire per quello che è stato? Io voglio addomesticarlo, levigarlo, sfumarlo, lucidarlo come un paio di scarpe vecchie ripescate in soffitta. Non vorrei essere costretto a condannarlo senza rimedio, a farne un padre inutilizzabile, impossibile da redimere. Ho bisogno di quest’uomo, non posso accettare di vivere senza di lui lo scampolo di vita che mi resta. Progetto di restaurarlo sulle rovine della mia memoria, analizzando i minimi frammenti per cercare di riedificarlo senza tutti quei vizi di costruzione che gli hanno impedito di essere lui. (p. 80)
Régis Jauffret si dedica allora alla ricostruzione della figura che avrebbe voluto suo padre fosse. Tesse assieme pochi ricordi felici, sogni non concretizzati, speranze tradite. Inventa suo padre da zero attraverso un collage di memorie che forse non sono mai esistite. In questo modo, risorge un nuovo Alfred, quello che Régis ha sempre sognato, desiderato, voluto. L’Alfred dei sogni di Régis esiste soltanto grazie a un mezzo: la letteratura, fonte di ogni compensazione, il “ritorno del represso” (secondo la formulazione teorica del critico letterario Francesco Orlando), faro della speranza per i naufraghi della vita, santuario di carità per gli affamati di irrealtà. Meta ultima per i sognatori di futuri e passati migliori. La letteratura restituisce a Régis Jauffret il padre che bramava con tutto se stesso e lo aiuta, parzialmente, a colmare i vuoti che Alfred ha lasciato in vita. Solo la letteratura, attraverso la finzione, ha questo potere compensativo, di restituirci una piccola dose di felicità che, altrimenti, non saremmo in grado di trovare nella nostra fredda, buia e sconsolata realtà:
Ascolta queste parole che non ti ho mai detto.«Ti amo, papà. Ti amo».Solo il romanzo ha il potere di modificare ciò che è stato. (p. 197)