«A volte senza volere» dice Sergio «senza accorgersene, capita di mescolare realtà e fantasia e fonderle insieme, ci si lascia intrappolare nel loro groviglio e ci si abbandona all'assurdo, è come partire per un viaggio verso una città che non è mai esistita». (p. 74)
Il nome di Amparo Dávila, almeno per i lettori italiani e per chi non si addentra nella letteratura messicana, è poco noto. Recentemente scomparsa, ha all'attivo una produzione di poesie e racconti. L'ospite e altri racconti da poco edito da Safarà, è una raccolta che si potrebbe definire horror. Ma che rientra benissimo anche nel thriller psicologico. E che non dimentica di mostrare uno squarcio sulla situazione femminile nel domestico. Coniuga queste tematiche usando uno stile di scrittura ossessivo e percussivo nella ripetizione di nomi e situazioni e suscitando nel lettore un senso di disorientamento, soffocamento e panico. Alla disperata ricerca di un qualunque tipo di appiglio concreto e razionale, i racconti lasciano dietro la terrificante sensazione di non riuscire mai ad afferrare pienamente ciò che ci spaventa: e che quindi non abbiamo la possibilità di sconfiggere.
Definita come la risposta messicana a Shirley Jackson, Amparo Dávila condivide con l'autrice americana il senso di claustrofobia dato dall'ambiente domestico. Molte storie della raccolta si sviluppano in ambienti chiusi. Frammento di un diario resta confinato tra un appartamento e la tromba delle scale dove l'anonimo narratore racconta del suo allenamento al dolore. L'ospite e Óscar mostrano case con all'interno orrori e violenza che travolgono le donne protagoniste. Nel racconto La cella, la giovane María, oltre che il terrore per le visite notturne che riceve, prova fastidio e senso di soffocamento persino per la scelta dell'arredamento che, in quanto fidanzata e preso sposa, le tocca fare.
Il senso di soffocamento dato dall'ambiente che dovrebbe essere un posto sicuro, si insinua in maniera tentacolare anche nella mente dei personaggi. In La colazione, la casa è invasa da sogni così terrificanti da intaccare persino la percezione della realtà. In L'ultima estate l'orrore che deriva da un aborto si concretizza in vermi invadenti che portano alla follia la protagonista. Il disorientamento e la pazzia che intaccano i protagonisti sono così grandi che quasi non è possibile contenerli all'interno del corpo tanto che molti personaggi hanno il vezzo di coprirsi la bocca nei picchi emozionali, quasi a trattenere all'interno ciò che è così oscuro da non poter essere liberato.
L'orrore non lascia la mente dei protagonisti nemmeno in caso di eventi che dovrebbero essere positivi. Un incontro fortuito con un bel giovane, che lascerebbe presagire una bella storia d'amore, viene inquinato da pensieri di violenza tutto frutto delle paranoie e dei costrutti della protagonista, Tina Reyes. Non c'è spiraglio di un miglioramento, non c'è possibilità di essere felici in nessuna delle storie raccontate.
Ma, ed è la caratteristica focale della raccolta e che distingue la narrativa dell'autrice da quella di Shirley Jackson, su tutto domina l'indefinito della situazioni che minacciano i protagonisti. In Shirley Jackson le minacce erano umane, ma ben individuabili: nella Lotteria la follia delle istituzioni umane, in Lizzie lo sdoppiamento della personalità, in Abbiamo sempre vissuto nel castello l'omicidio e l'isolamento dal resto del mondo. Nulla di sovrannaturale – e proprio per questo agghiacciante – ma nulla di non inquadrabile. In Amparo Dávila viene compiuto un passo ulteriore: molte delle minacce non hanno volto, non hanno nome, non hanno nessun tipo di identificazione. In L'ospite o Moisés e Gaspar non sappiamo con che entità abbiamo a che fare, definite come sono da "egli" o "loro".
Quando lo vidi per la prima volta, non riuscii a reprimere un grido di terrore. Era lugubre, sinistro. Aveva grandi occhi giallastri, quasi rotondi e sempre sbarrati, che sembravano penetrare attraverso le cose e le persone. (p. 23)
Certo, possiamo, ed è naturale farlo, cercare di dare loro un'identità o, quanto meno, cercare di distinguerli tra umano e animale. Cerchiamo disperatamente di ricondurli su un piano che possa avere qualcosa di concreto, ma arriviamo alla fine del racconto senza aver concluso nulla, con un manciata di fumo in mano alla disperata ricerca di un brandello di razionalità. Perché se avere paura di qualcosa di concreto e umano è peggio che avere paura del Babau, come avviene con la Jackson, non riuscire nemmeno a dare un nome alla nostra paura che però è fisica e concreta e in grado di farci del male, sconfina in un disagio che non si può risolvere in nessuna maniera.
Giulia Pretta