L’arte culinaria in 240 piatti d’autore
a cura di Susan Jung, Howie Kahn, Christine Muhlke, Pat Nurse, Andrea Petrini, Diego Salazar, Richard Vines
Illustrazioni di Adriano Rampazzo
Traduzione di Lucia Corradini (storie) e Laura Guidetti (ricette)
pp. 452
€ 39,90 (cartaceo)
Prendete Susan Jung, Howie Kahn, Christine Muhlke, Pat Nurse, Andrea Petrini, Diego Salazar e Richard Vines e affidate loro la cura di un volume capace di ripercorrere gli ultimi tre secoli di cultura gastronomica dell’intero globo terracqueo. Prendete, cioè, sette tra le più prestigiose firme in tema di cibo & co. a livello internazionale e chiedete loro di scegliere, tra gli innumerevoli piatti assaggiati o gustati in giro per il mondo, poco più di duecento tra antipasti, primi, secondi, contorni, dolci e spuntini che siano degni di occupare un posto (a tavola) nel pantheon dell’edibile più memorabile e caratteristico. Fantascienza sub specie alimentare? Nì. Perché se è vero che è certamente impossibile tenere il conto di quanto è stato cotto e mangiato nei trecento anni appena trascorsi, e se non meno difficile appare un sondaggio di ciò che di meglio è stato e viene ancora impiattato da cuochi di chiara e (ormai) imperitura fama, pronunciarsi in proposito è un azzardo non da poco, che pretende un curriculum fatto di molti viaggi e moltissimi assaggi. Servite, dunque, le mini-biografie delle pietanze accompagnate dalle rispettive ricette, corredate il tutto con le illustrazioni di un ex-chef d’esperienza come Adriano Rampazzo, ed ecco a voi Quando un piatto fa storia, una vera e propria antologia à la carte con l’ambizione (tutt’altro che meramente riduttiva) di proporvi L’arte culinaria in 240 piatti d’autore.
Appena pubblicato in Italia in un’edizione nata dall’intesa tra Phaidon e L’ippocampo, questo volume a molteplice firma è al perfetto crocevia tra il saggio di cultura gastronomica, la recensione sulla rivista di settore e il ricettario di lusso. Tutte e tre le cose e, insieme, nessuna, anche se da parte sua Mitchell Davis, che ne firma la bella Prefazione, non ha dubbi:
«se ogni piatto rispecchia un autore e la sua epoca, questo compendio non è soltanto una raccolta di ricette e di storie, e meno che mai una lista di pietanze da provare almeno una volta nella vita, ma si candida a diventare, almeno per qualche tempo, il più autorevole dei canoni culinari» (p. 9).
Un canone, dunque, con tutto il corollario di inclusioni ed esclusioni che lo rendono tale. Perché certamente più e più preparazioni sono state taciute tra quelle che i magnifici sette del food writing hanno annoverato a partire dal Gelato di Procopio Cutò (Le Procope, Francia, 1686) per arrivare alle Animelle in tempura con alga nori, dashi, julienne di zenzero e caviale di Christophe Pelé (Le Clarence, Francia, 2019). Leggendone le rispettive schede, il senso che ha animato questa cernita finisce col palesarsi in tutta la sua natura fatta in parti uguali di arbitrio e di testimonianza: difatti, a quanto si evince dai racconti singoli e condivisi, affinché un piatto lasciasse un segno permanente nel nostro modo di mangiare è sempre stato necessario non solo e non tanto che andasse oltre le mode del momento, ma soprattutto che sapesse trarre vantaggio dalla penuria e dallo scarto, che fosse in grado di fare di necessità virtù, che avesse il coraggio di porsi in termini identitari pur contraddicendo le tradizioni più paludate e che si ponesse come fine non tanto la meraviglia barocca quanto l’ipotesi di una rivoluzione sensoriale. Per questo non c’è pensiero – pensiero nel senso più alto e filosofico del termine – che non preceda ciascuno dei piatti in elenco, così come non c’è intuizione, casualità, esperimento, tentativo o sondaggio che non abbia contribuito a fare la fortuna dei rispettivi successi.
La seconda metà del volume, come si è detto, è occupata dal ricettario. Ma non si tratta, ad ogni modo, di un inserto di manualistica culinaria tout court, non fosse altro che – al netto della maggiore o minore bravura di chi, chef o non chef, avesse intenzione di cimentarsi nelle rispettive messe in pratica – non sarebbe possibile offrire sempre un 100% di informazioni oggettive su questo genere di pietanze senza guastarne in qualche modo l’aura. Nemmeno l’incipit della sezione, del resto, intende illudere gli ingenui: «le ricette son riprodotte nella loro versione originale, quando esiste, o tradotte il più fedelmente possibile, per rispettare le intenzioni, il linguaggio e la sintassi degli autori. Di quelle segrete, o che non è stato possibile reperire, viene fornita una breve descrizione del risultato finale» (p. 260). Stampate su bellissima carta cerulea, precedute da un ulteriore illustrazione grafica del piatto di riferimento, le ricette si leggono con l’arroganza di un cimento prossimo o la speranza di un assaggio futuro, ma più che altro (e sotto sotto) nella certezza che nulla, nemmeno la migliore approssimazione, sarebbe mai in grado di eguagliare la riuscita di qualcosa di così indiscutibilmente autoriale.
Libro per chiunque abbia nei confronti del cibo un approccio goloso/gaudente come anche filologico/intellettuale, Quando un piatto fa storia ha il pregio di combinare l’aspetto fisico e sensuale che sempre accompagna la conoscenza del commestibile con quello più specificamente storico e culturale che racconta, spiega e ragiona 240 occorrenze divenute fenomeni gastronomici veri e propri. Per questo starebbe bene nella libreria di ogni aspirante chef come in quella del più accanito frequentatore di ristoranti (stellati e non). Pieno di ritmo grazie anche alla misura breve delle prose di presentazione e alle azzeccatissime illustrazioni a colori di Adriano Rampazzo, quest’ultima pubblicazione siglata Phaidon-L’ippocampo è destinata a non annoiare gli avventori (e anzi le cause di eventuali sbadigli andranno cercate in quel prevedibilissimo e crescente appetito che verrà leggendo): un’occasione davvero da non perdere, dunque, per fare un viaggio nel tempo e in giro per i cinque continenti passando dall’antipasto al dolce, ancora una volta nella conferma della meravigliosa complessità che accompagna anche ogni più semplice convivio e (sono sempre parole di Mitchell Davis) del «moto ondivago e venato di follia che ha modellato la nostra cultura del mangiare» (p. 9).
Cecilia Mariani