pp. 266
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È stato faticoso per me entrare nel libro di Irene Salvatori, scivolarci dentro, trovare una sintonia con il fluire della sua coscienza. È dovuto arrivare il momento giusto, perché ogni lettore sa che c’è un momento in cui un libro ti chiama, e forzare quel tempo può voler dire anche bruciare le possibilità del libro stesso. Quella che l’autrice compone è una lunga lettera alla madre perduta, la cui mancanza risale ormai a quindici anni prima, ma brucia ancora viva, presente, allo stesso modo. Ogni capitolo si avvia con la lettera minuscola e termina senza punto fermo, quasi a condurre avanti un discorso già iniziato e mai davvero concluso. Sulla sponda di un lago che le è familiare, Irene sta “cercando una chiave”, quella che le consentirà finalmente di interpretarsi, di trovare la strada. Sono fortissime, almeno all’inizio, le risonanze con la Commedia dantesca: è proprio una selva oscura, un abisso profondo, quello in cui la figlia si è smarrita una volta rimasta orfana del suo punto di riferimento:
Ciascuna vita sembra che abbia una sola direzione e io la mia l’ho sbagliata. Ho più volte sbagliato strada, finché il bosco si è fatto troppo fitto intorno a me e mi sono dovuta fermare. Ero dentro, cercavo di rimanerci nonostante i cespugli, i rovi, comunque cercavo di starci, di proseguire, ma non andavo avanti e alla fine sarei dovuto uscire, ma scappavo invece, cascavo, mi riprendevo e come mi alzavo venivo falciata, tagliata via e quindi alla fine sono tornata indietro. Il sentiero sul quale cercavo di proseguire è sparito, a un certo punto mi ero distratta, pensavo di sapermi orientare, mi ero allontanata e quando sono tornata non l’ho trovato più. Adesso non posso chiedere una mano. Non posso, perché sono al di là di ogni tempo massimo. (p. 12-13)
Ha dovuto vagare per città e nazioni, immergersi in una lingua nuova, ma anche al fondo di sé, con un sottomarino guidato da un solido capitano Nemo, per provare a fuggire dalla mancanza del fiato, dal dolore che acceca, da una normalità che non è più la stessa né potrà mai esserlo. È con uno stile onirico, immaginifico, eppure straordinariamente concreto nella forma della prosa, nelle immagini adottate, che l’autrice ci mostra il suo percorso di risalita. Si tratta di imparare da capo atti già acquisiti e che invece adesso risultano difficili, quasi impossibili: parlare, respirare, guardare (“mettermi i tuoi orecchini e abituare lo sguardo allo sfondo dei miei capelli neri e non dei tuoi, biondi, d’oro. D’oro mamma ti ho sempre vista, l’oro era il tuo colore”, p. 21). Si tratta di interrompere, convertire, la metamorfosi dolorosa che snatura e che pare inarrestabile, che fa del corpo stesso la selva che divora:
Soltanto la mia percezione del tempo si era inceppata in uno spasmo, un’ischemia. [...] La sola cosa che ero riuscita a fare, a farmi, era un solco, un buco. Avevo arato le pareti dei miei polmoni e con la successiva manciata di semi che il tempo avrebbe sparso ci sarebbe cresciuta una foresta di piante carnivore infestanti, a succhiarmi l’aria. A questo avevo aggiunto l’energia delle braccia dei miei vent’anni, così a quella foresta non era mancato nulla per venir su tropicale, tempestosa. (p. 22-23)
Si tratta soprattutto di trovare la propria Heimat, un posto da poter chiamare casa e in cui radicarsi, visto che dove lei è mancata non può più esserci casa, ma solo un lungo deserto di attese frustrate. Nel suo andare inquieto, Irene deve imparare a essere madre a sua volta, oltre che figlia, e anche questo è un passo faticoso e incerto, su un terreno sdrucciolevole, in salita. Deve deporre la “spada di Bradamante”, metafora della sua rabbia sopita, pronta a distruggere, dei suoi denti pronti a mordere come quelli di una volpe selvatica che ha fatto fuggire il suo piccolo principe restando sola. Lo deve fare per i suoi bambini, Gauguin, Scoiattola e Caravaggio, che crescono nel mito della nonna e chiamano lei “mamma”, per quanto duro possa essere sentire quel termine se riferito a qualcun altro che non alla propria.
Il testo è ricco di echi letterari e culturali in senso lato, ma anche di riflessioni con cui la narratrice presenta alla madre la sé adulta, le sue opinioni sul reale (dal femminismo al biasimo su alcune moderne traduzioni, da Facebook e le piattaforme social alle abitudini contemporanee). Si configura così un puzzle dell’anima, il cui profilo si ricostruisce poco per volta, tassello dopo tassello. Al tempo stesso, però, si tratta di una narrazione viscerale, che parla di corpi, perché il dolore assume forma tangibile, lascia un’impronta, un solco, sulle membra, sugli organi interni. Per frammenti si rivela la storia passata della protagonista, dal trauma di una sua infermità adolescenziale agli amori della maturità (il fallimento della sua relazione con “lo scarafaggio”, quella perduta con il Principe Piccolo, la disillusione e la paura del legame). La scrittura è densa, figurativa, e spesso bisogna compiere un atto di fiducia e abbandonarvisi, seguendo le vie impervie del fraseggio, per arrivare ai momenti di svelamento cui approda, insieme al lettore, anche la protagonista. La tendenza a ricorrere alle immagini per spiegare il dolore non è connaturata, ma appresa, frutto di un percorso di psicoterapia che, seppur con fatica, l’ha riportata alla luce:
con Nemo per anni si è lavorato sulle immagini, cioè non è che si lavorasse, mi viene in mente ora che quel suo chiedere di descrivere con un’immagine come mi sentivo fosse un modo per lavorare su di me, una specie di correlativo oggettivo del dolore. (p. 139)
Dipenderà dalla sensibilità, dalle esperienze, dal gusto letterario di chi approda al libro trovare inclusiva o respingente la prosa di Irene Salvatori, sentirsi coinvolto nella foresta di simboli che lei riesce a creare, o esserne radicalmente tagliato fuori e sprofondare nello spaesamento o nella noia. Il percorso è arduo, anche per la protagonista, che si muove come il cavallo degli scacchi, prima in avanti e poi con uno scarto laterale – quando non fa direttamente dei passi indietro. Mentre nella sua testa la parte emotiva combatte con quella razionale (Midori e Mimì, impegnate in un eterno conflitto a suon di schiacciate a rete), persiste l’angoscia di trovare risposte definitive in assenza di reali punti di riferimento (perché una volta sparita la madre, le è stato impossibile affidarsi ancora, affidarsi davvero). E allora, forse, quello che deve succedere è lasciare spazio al vuoto, all’assenza di risposte, all’idea che la ricerca della chiave possa essere essa stessa una qualche forma di traguardo, indipendentemente dal ritrovamento. Ci si può così congedare, esaurita la carta, sopite le parole, in attesa di un ricongiungimento di cui, comunque, non si dubita mai.
Carolina Pernigo
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