Dove finisce l’Italia. Viaggio sulla linea sottile dei nostri confini
di Niccolò Zancan
Feltrinelli, settembre 2020
pp. 160
€ 15 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Līmĕs, in latino. Limite come traduzione letterale, interpretabile anche come barriera. Geograficamente parlando diventa confine, definito a sua volta dalla Treccani come “limite di una regione geografica o di uno Stato; zona di transizione in cui scompaiono le caratteristiche individuali di una regione e cominciano quelle differenzianti”. È attraverso una riflessione di natura terminologica che Niccolò Zancan apre il suo nuovo libro, edito da Feltrinelli, Dove finisce l’Italia. Viaggio sulla linea sottile dei nostri confini. Solo che, come sottolinea l’autore, le indagini terminologiche, politiche o geografiche non sono sufficienti: «se togli i soldati di guardia, il confine è un ponte» (p. 14). Ed è di questo ponte invisibile agli occhi ma percepibile e comprensibile attraverso gli incontri con chi lo attraversa che Zancan ha voluto scrivere.
Come afferma nell'intervista rilasciata a “Radio Radicale. Conoscere per deliberare”, la genesi del libro risale a quando La Stampa, giornale per cui Zancan scrive, lo invia nei boschi della Val Rosandra per “dare la caccia ai migranti” che attraversano i Balcani per tentare di entrare nel nostro paese. Quello che vede non è la tanto acclamata “minaccia sociale” per l’Italia, ma persone, esseri umani tali e quali a noi, infreddoliti, sciupati dalla fame, che si lasciano dietro scie di oggetti e beni personali che non riescono più a portarsi dietro per la stanchezza. E queste stesse persone vengono umiliate, picchiate, respinte, spogliate di tutto, anche della propria dignità. E tutto ciò avviene nel confine. Un esempio è la storia di Alì, denominato il pazzo, il quale, all'ottavo tentativo, si avvicina al confine italiano. La polizia lo trova, gli fa togliere le scarpe e lo obbliga a tornare indietro, camminando scalzo nella neve. Alì perde tutte le falangi dei piedi a causa della necrosi, per poi morire di cancrena. Questa storia nessuno la conosce. I giornali non la riportano.
Da questa esperienza nasce Dove finisce l’Italia, un viaggio che il giornalista compie attraverso i più importanti confini del nostro paese per capire la complessità che si cela dietro una presunta e fittizia linea nera tracciata su una mappa geografica. Nord-est, Nord, Nord-ovest e Sud sono i confini valicati, analizzati, descritti e raccontati non solo attraverso lo sguardo di Niccolò Zancan, ma, soprattutto, dalla carrellata umana di uomini, donne, ragazzi e bambini che cercano di entrare nel nostro paese e che vengono trattati nelle più barbare maniere da poliziotti, politici (caso eclatante è quello delle azioni xenofobe del vicesindaco di Trieste, Paolo Polidori), corpi di Stato e datori di lavoro: Hassan T., Alexei, Hamid picchiati a suon di manganello per non lasciarli entrare in territorio italiano; Lazar schiavizzato dal capo della ditta ortofrutticola per cui lavora; Farà, che partorisce su un barcone e successivamente allontanata dall'ospedale perché le madri italiane hanno paura che porti malattie; Ana, stuprata per dodici anni consecutivi dall'uomo per cui lavora, il quale viene successivamente assolto dalla giustizia italiana. A loro si susseguono i morti non identificabili: i barconi rovesciati e gli annegati nel Mediterraneo, i caduti nelle gole del Passo della Morte a Ventimiglia, i morti congelati sulle montagne al confine con i Balcani. I morti di fame nelle nostre strade.
Raccontando solo la parte di storia che fa comodo al nostro sistema, il confine diventa erroneamente un tema di allarme, di paura, di emergenza nel dibatti pubblici. In questo modo, Zancan afferma in quella stessa intervista che “se ti avvicini, vedi che è molto diversa la storia da come viene raccontata”. Il confine, per chi ci vive non è mai luogo di paura:
Era una costante della frontiera. Potevi trovare risentimento, anche insofferenza. Ma quasi mai trovavi paura. Come se abitare sulla porta di un Paese ti abituasse al passaggio continuo della gente. (p. 93)
Soltanto raccontando e riportando fedelmente le storie narrate in prima persona dai migranti, rifugiati, stranieri, ma anche da uomini e donne del posto che vivono lungo i confini e che sentono sulla terra lo scambio osmotico tra persone di paesi diversi, si riescono a mettere a posto le cose e far vedere che la paura del diverso non sta lungo le frontiere, ma si radica in chi abita lontano da esse e non vive la quotidianità di questo fenomeno normalmente umano. Così facendo, Dove finisce l’Italia diventa un libro fondamentale per dare voce a chi non ha la forza per farlo, mostrando ai lettori delle storie crude e violente ma che, paradossalmente, caratterizzano il quotidiano dei migranti del nostro paese. Solo che noi, italiani, non le vogliamo ascoltare e vedere.
E mentre ci pensavo, pensai che finché qualcuno conosce la tua storia sei vivo. Vivo per sempre. Ancora parte del mondo. (p. 77)
Il confine diventa, in fin dei conti, il luogo in cui le ipocrisie dello Stato italiano emergono con più forza. Se siamo sempre disposti a discutere delle difficili condizioni di lavoro degli italiani all'estero, perché, al contrario, dimentichiamo facilmente chi come noi ripete la stessa esperienza di immigrazione nel nostro paese? Perché abbiamo dimenticato il nostro passato di immigrazione dopo le due Guerre mondiali? Perché siamo disposti a concedere visti di lavoro a ragazze dei Balcani per andare a prostituirsi in bordelli al confine con l’Austria (frequentati al 92 per cento da italiani) ma non le non accogliamo quando cercano di entrare in Italia per altre ragioni? Questi non detti sui nostri territori di frontiera dicono molto sul nostro “Bel Paese”, come anche ricorda Zancan: «ed eravamo noi a legittimare quel genere di discorsi. Con il nostro silenzio.» (p. 44)
Leggere il libro di Niccolò Zancan, oggi, è necessario. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci faccia aprire gli occhi, che conduca il nostro paese fuori dalla cecità e dalla sordità che non ci consentono di vedere e sentire storie così tragicamente umane.
“Sono scappato dalla guerra! Cos'altro dovevo fare? Maledetti! Voi mi trattate come un rifiuto. Per voi sono
uno schifo! Uno zero su questa terra.” (p. 55)
Leggere questa frase non può lasciarci indifferenti. Questa sentenza diventa un ammonimento per la nostra società: abbiamo bisogno di farci una profonda analisi di coscienza.
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