Se c’è un Dio a cui anziani e infanti sono più vicini è un Dio crudele e primordiale, fatto della parte più autentica dell’essere umano: un Dio egoista che ti rende uguale a lui, che ti fa strappare il giocattolo dalla mano del compagnuccio più gracile, che ti fa sgomitare per avere più spazio sull’ingocchiatoio, così da stare più comodo mentre una nenia cattolica dopo l’altra cerchi, nei pochi anni che ti restano, di guadagnarti il Regno dei Cieli. (p. 60)
Nel 2017, per Altri Animali, recensivo Grande Era Onirica, quello che definivo «un esordio col botto» di Marta Zura-Puntaroni. La trama era semplice e, come dicevo, strettamente funzionale a ciò che la giovane autrice, all’epoca ventiseienne voleva raccontare: vale a dire la storia romanzata della propria depressione (a tal conosco almeno un altro autore contemporaneo che ha voluto trattare lo stesso tema dall’interno, ossia raccontando la propria esperienza: Andrea Pomella, che nel suo L’uomo che trema, Einaudi 2018, espone al pubblico oltre vent’anni di patologia. Anche di lui ho parlato, sempre su Altri Animali).
Alla fine di quella recensione sospendevo il giudizio sull’autrice marchigiana, in quanto il suo romanzo-memoir a un certo punto perdeva i contorni e si dilatava nel tempo, finendo per aggrovigliarsi su se stesso, nello stesso modo in cui i giorni di chi è depresso perdono colore e sembrano non avere fine. Era stato un errore da principiante o una scelta voluta e calcolata?
Oggi, dopo aver letto Noi
non abbiamo colpa, posso sciogliere quel nodo e dire che questo meccanismo
è in verità parte integrante della cifra stilistica – della voce – di Marta
Zura-Puntaroni.
Ma in che senso? Di cosa parla esattamente Noi non abbiamo colpa?
Parla del ritorno di Marta nelle sue Marche, nel suo paesino
sperduto e colpito dal terremoto, per un tempo che sembra indefinito, in quanto
«mia nonna sta male» (p. 17). La nonna, questa figura matriarcale che riveste
un ruolo principe nella famiglia di Marta, composta quasi tutta da donne,
soffre di un male che è agghiacciante tanto quanto la depressione di cui ha
sofferto lei qualche anno prima. Parliamo dell’Alzheimer, che è malattia
agghiacciante, appunto, perché deturpa, sfibra, cancella quella che riteniamo
essere la parte di noi che più di ogni altra ci appartiene e ci definisce, ossia la memoria, e di conseguenza l’identità.
È forse l’unica malattia che può portare un figlio a fare ragionamenti come quelli che fa Marta (quale Marta, poi? La Marta autrice o la Marta personaggio? Quanto si nasconde la Marta reale dentro al proprio alter ego letterario?):
vorrei vedere i miei genitori così? Come Carlantonia, Tullio, Cecilia? No, sicuramente no. Ma quanto a lungo voglio averli con me, allora? voglio vederli morire presto, nel pieno delle loro facoltà fisiche e mentali, provare quel senso straziante di abbandono e di solitudine oppure voglio averli fino all’ultimo, vederli svanire, farsi guscio leggero senza gheriglio […]? (p. 115)
Se in Grande Era
Onirica il tema era la narrazione di una malattia destabilizzante vissuta
dall’interno, Noi non abbiamo colpa
vuole raccontare la malattia da un punto di vista esterno e prossimo. Ancora una
volta la patologia è argomento caro all’autrice, che non smette di porsi
domande esistenziali per comprendere – con una vena critica nei confronti del
cristianesimo, con il quale noi occidentali non possiamo non relazionarci anche
quando ne siamo apertamente ostili – che ruolo abbiamo in questo mondo, che
senso ha tutto questo dolore, perché la vita deve essere così. La frase che dà
il titolo al libro ricorre più volte a mo’ di giustificazione, con quella
semplicità e quell’innocenza tipica di chi vuole mettere le mani avanti perché
veramente non ha chiesto di partecipare a questo gioco eppure ne fa parte suo
malgrado; ancora, con la consapevolezza che per poter urlare al mondo il
fastidio di far parte di questo gioco deve esservi necessariamente dentro, in
una sorta di perverso meccanismo che lega a doppio filo esistenza e pensiero.
«Tutto è spaventoso e non abbiamo chiesto noi di venire al mondo» (p. 47).
Come nel primo libro, anche qui non c’è una vera e propria conclusione. Questo romanzo è un diario familiare che racconta un certo periodo, il quale può concludersi solo con la morte della persona affetta da Alzheimer. Ma non è necessario raccontare quella parte di storia. Il finale, dunque, resta un po’ sospeso, con una accettazione del fatto, di quel che è, dovuta a eventi esterni che colpiscono persone più vicine alla protagonista.
Bisogna dunque accettare che questo è lo stile di Marta Zura-Puntaroni: lei
vuole parlare di queste cose che la spaventano e vuole farlo a modo suo.
Possiamo seguirla nel suo incubo lucido o abbandonarla: non vi è terza via. In
questo, il paragone con Andrea Pomella è ancora più calzante: entrambi vogliono
parlare di sé, del proprio orrore, del proprio dolore.
Per questo – parlo in maniera strettamente personale – li amo
così tanto.
David Valentini
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