Schiavi del clic.
Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo
di Antonio A. Casilli
traduzione di Raffaele Alberto Ventura
Feltrinelli, 2020
pp. 320
€ 9,99 (ebook)
Il digital labor, per come lo intendiamo, definisce il processo di scomposizione in mansioni elementari e datificazione delle attività umane che caratterizza l’applicazione nella sfera economica delle tecnologie di intelligenza artificiale e di apprendimento automatico. Si tratta di una costellazione di pratiche all’incrocio tra lavoro atipico, lavoro indipendente, lavoro a cottimo microremunerato, hobby professionalizzato, passatempo monetizzato e pura e semplice effusione spontanea di dati. (p. 38)
Se qualcosa ci sta insegnando questo periodo – ce ne sta insegnando parecchie, in verità, ma entreremmo in macro discorsi che esulano dal motivo per cui sto scrivendo – è che il mercato del lavoro può adattarsi rapidamente. La maggioranza delle occupazioni, soprattutto quelle legate al terziario, possono essere svolte in smart working, lontano dagli uffici, attraverso formule miste di presenza e telelavoro che si allontanano sempre di più dal modello di impiego full time che prevede(va) la permanenza all’interno di strutture spesso alienanti per quaranta (o più) ore a settimana.
Lavorare in casa, in un bar, al mare può sembrare un sogno per i dipendenti che non devono più svegliarsi presto e impantanarsi nel traffico delle ore di punta, consapevoli di dover trascorrere la parte più produttiva della giornata in luoghi estranei; eppure anche questo tipo di lavoro solleva questioni: la fine degli orari da ufficio e la possibilità di essere raggiunti ovunque tramite gli smartphone rischiano di trasformare questa nuova libertà in un vincolo ancora più stringente. Se ho nel laptop o nello smartphone tutti gli strumenti per lavorare, perché non posso rispondere alle mail di lavoro dopo cena o terminare quella task urgente alle due di notte? E questo, ovviamente, solo per porre la più banale delle considerazioni.
Il voluminoso saggio di Casilli, sociologo, professore all’università Télécom Paris e ricercatore associato alla École des hautes études en sciences sociales, affronta proprio questi aspetti di quello che lui chiama il “nuovo capitalismo”. Nel suo studio si sofferma soprattutto sulle interazioni fra esseri umani e lavoro digitale, individuando – nella seconda parte, che è poi la più interessante – tre tipi di digital labor: il digital labor on demand, ossia quello dei corrieri di Deliveroo e Glovo e degli autisti di Uber; il microlavoro, quello dei freelance di Upwork o di altre piattaforme digitali che connettono clienti e lavoratori; il lavoro sociale in rete, forse il più azzardato da associare al termine “lavoro”, vale a dire quello dei produser dei social network e delle piattaforme di consumo come Wikipedia. Casilli mostra come ognuna di queste attività, che nascono, crescono ed evolvono in nome di una presunta libertà di azione (la possibilità di lavorare ovunque, con i propri tempi e le proprie modalità, senza i vincoli tipici del capitalismo classico), celi una realtà fatta di sfruttamento, lavoro in nero e basse retribuzioni che, agli occhi del lettore, rimandano a meccaniche tipiche del capitalismo di inizio Novecento.
Ma qual è, in fin dei conti, il problema? Ebbene, non è nuovo, anche se nuove
sono le meccaniche che lo animano: le piattaforme di intermediazione, che virtualmente
nascono per garantire un accesso semplice ai digital labor attraverso interfacce user friendly, fanno capo a multinazionali digitali come Amazon e Facebook e, di conseguenza, replicano il sogno
capitalistico del massimo profitto con il minimo sforzo. Casilli mostra come –
anche qui, anche oggi – non si possa sfuggire alle dinamiche dello sfruttamento del lavoratore viste in epoche precedenti. Il lavoratore, convinto
di potersi arricchire con pochi clic o prestando i propri servizi a una serie di clienti che si manifestano solo come avatar, si ritrova suo
malgrado sfruttato da algoritmi che nulla bramano, se non moltiplicare gli
sforzi e raccogliere dati sugli utenti.
Proprio i dati, infine, sembrano rappresentare l’ultima
frontiera della speculazione capitalistica. Casilli mostra, per fare un solo esempio,
come la principale fonte di reddito di Amazon – che pure nasce e s'impone come ipermercato online – sia oggi la vendita dei dati personali alle
grandi industrie pubblicitarie. Le informazioni su di noi – su di noi umani –
sono dunque ciò che più interessa alle piattaforme e agli algoritmi… in poche
parole, al nuovo capitalismo digitale.
Il saggio di Casilli è complesso da leggere, non tanto per
la mole quanto per la quantità di informazioni che propone e per un lessico che
ancora non fa pienamente parte del nostro vocabolario. È tuttavia illuminante ciò che
scrive, perché indica il percorso fatto per arrivare a questo punto e,
soprattutto, la direzione verso cui stiamo andando. Al capitalismo, in
qualsiasi forma si presenti, sembra non esserci alternativa.
David Valentini
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