Le città di carta
di Dominique Fortier
Alter ego, 2020
di Dominique Fortier
Alter ego, 2020
Traduzione di Camilla Diez
pp. 192
€ 16 (cartaceo)
€ 16 (cartaceo)
È molto tempo ormai che abita nella sua casa di carta. Non si possono avere al contempo la vita e i libri – a meno di scegliere i libri una volta per tutte e di metterci dentro la propria vita. (p. 108)
Ultimamente, sempre più spesso, la lettura si va facendo ancora più riflessiva, personale: soppeso ogni parola e immagine che trovo sulla pagina e lascio che sedimenti dentro, che non si riduca a sterile esercizio di fantasia ma – almeno in certi casi, quando mi trovo di fronte a testi di indubbio valore – smuova qualcosa, si insinui sottopelle e induca al ragionamento, alla riflessione. È così che ogni volta, nel tentare di riportare in questo spazio considerazioni e spunti sul libro appena concluso, è piuttosto facile sorprendermi con lo sguardo un po’ perso davanti alla finestra, nel tentativo di arginare le parole, metterle in ordine, provare a capire che cosa resta, alla fine, dell’ultima lettura.
Ho tra le mani questa volta un piccolo gioiello, un libro di difficile catalogazione e ricchissimo di spunti, breve nel tempo di lettura che richiede e non privo di difetti editoriali che non mancherò di sottolineare, ma nel complesso capace di aprire squarci.
Le città di carta, della ricercatrice canadese Dominique Fortier, in Italia appena uscito per Alter Ego edizioni, è un ibrido, tra saggio, biografia, racconto. L’anima, assolutamente palpitante, è la sua protagonista: Emily Dickinson.
Fortier, un dottorato in Letteratura e con l’esperienza pluriennale come ricercatrice e scrittrice, poteva sicuramente confezionare un testo più convenzionale, che si sarebbe aggiunto – probabilmente senza particolare clamore – alla già ben nutrita bibliografia sulla poetessa americana, di cui sono quasi certa non sarebbe arrivata traccia fino a noi. Quello che fa Fortier, però, è un lavoro di tutt’altro stampo e, per quel che mi riguarda, le sono grata: Le città di carta, come si diceva, non è una biografia né un saggio, non del tutto almeno e non in senso convenzionale, è, piuttosto, il ritratto intimo di una scrittrice, tra dato biografico e invenzione letteraria, che per sua natura non mira a essere esaustivo ma a illuminare momenti della vita letteraria e privata di Emily Dickinson, tralasciando sterili congetture; è un viaggio – per sua natura parziale e soggettivo - nell’interiorità della poetessa, che si dipana dall’infanzia fino all’età adulta, inseguendo di volta in volta l’ispirazione data da una parola, uno spunto, un’immagine, e sottolineando soprattutto la centralità dei luoghi cui Dickinson è appartenuta.
Interessante, inoltre, anche la scelta di inserire qui e là nella narrazione, micro racconti personali di Dominique Fortier legati alla riflessione su Dickinson, che aprono a ulteriori spunti, mostrando dubbi e metodi della ricerca letteraria, questioni personali, sensibilità dell’autrice. Un testo interessante, quindi, su cui le principali perplessità riguardano alcune scelte editoriali: in primo luogo la decisione di inserire brevi brani in lingua originale privi di alcuna traduzione o giochi di parole che, al contrario, nella traduzione non spiegata da una nota possono perdere di significato per il lettore, cui si lega in discorso sulla mancanza di note (che, oltretutto, direi essere obbligatorie quando si citano testi altri) e un apparato critico bibliografico minimo cui il lettore possa fare riferimento. L’opera di Fortier si rivolge a un pubblico non necessariamente specialistico, ma per sua natura sarebbe stato opportuno fornire gli elementi da cui poter costruire un proprio percorso nella lettura di Dickinson.
Mancanze che tuttavia non turbano più del dovuto la lettura né sminuiscono il lavoro editoriale che in generale mi è parso ben curato, reso anche nella puntuale traduzione di Camilla Diez, capace di confrontarsi con una narrazione lirica, in cui ogni parola ha un peso e una forza immaginifica con cui non deve essere stato semplice confrontarsi
Raccontare Emily Dickinson oggi, soprattutto fuori dal contesto accademico, è, a mio avviso, scegliere uno spunto, un singolo elemento da cui provare a tratteggiare l’universo interiore e letterario di un’autrice che per certi versi resterà sempre un mistero e, in opere ibride come questa, non è facile calibrare il dato biografico-critico con l’invenzione narrativa. C’è un esempio magistrale a mio parere per opere di questo tipo e mi riferisco ad Augustus, il romanzo-biografia che John Williams aveva dedicato alla figura dell’imperatore Ottaviano Augusto, cui per certi versi si avvicinano Efemeridi di Cesare Catà e Gli dei notturni di Danilo Soscia; Le città di carta non raggiunge le vette di Augustus – parliamo di un fuoriclasse della letteratura statunitense, il confronto risulta impietoso – ma apre spunti interessanti e ne ho apprezzato l’intelligenza e la sensibilità dell’autrice, il profondo rispetto per il genio letterario e, prima ancora, per la poesia. L’immaginazione priva però di speculazioni, una scelta a mio parere vincente.
Invano gli studiosi cercano un passaggio, un punto di svolta nella vita di Emily Dickinson […] che spiegherebbe il singolare isolamento in cui ha scelto di trascorrere la seconda metà dell’esistenza. (p. 161)
Nel tentativo di ritrarre Emily Dickinson, Fortier riesce a restituire l’intimità della poetessa, il genio letterario, da cui traspare ammirazione e rispetto ma senza raccontare un mito, lontanissimo e sfuggente. Dickinson ritorna alla sua dimensione più umana, a partire dai luoghi che le sono appartenuti, il fil rouge di tutta la narrazione: Amherst, il «borgo di letterati» vicino a Boston in cui ha vissuto, Homestead, dove frequenta per un periodo il seminario femminile, Boston stessa, per poi circoscrivere sempre più lo spazio entro cui muoversi. Il paese, la casa e il giardino, la propria stanza. Ma sono soprattutto quelle «città di carta» lo spazio immenso e allo stesso tempo intimo entro cui Dickinson si muove, a proprio agio come mai nella realtà tangibile:
Si narra che inizialmente avesse limitato le visite in paese per poi rimanere segregata in giardino, prima di non allontanarsi più da casa e poi dal secondo piano, e che infine avesse eletto domicilio la sua stanza, da cui usciva solo in caso di stretta necessità. Ma in realtà, già da tempo viveva in uno spazio ancora più piccolo: un pezzo di carta grande come il palmo di una mano. Nessuno avrebbe potuto portargliela via, quella casa lì. (p. 104)
Il racconto di Fortier è carico di lirismo e malinconia. È una casa popolata di libri, stampe e fantasmi, ricordo di una stagione della vita che appare quasi idealizzata:
Anni dopo, sporgendosi dalla finestra in un mattino di dicembre, Emily rivede i tre piccoli fantasmi di nove, sette e cinque anni. Quei bambini non ci sono più, sono scomparsi con la stessa inconfutabilità che se li avessero sepolti. Anni dopo, davanti alla prima neve, Emily scoppia a piangere. (p. 21
L’infanzia che porta in sé il segno della morte, l’età adulta a incombere. Austin, Lavinia, Emily: i tre bambini Dickinson, che resteranno nella fantasia della poetessa sempre immutati. Mentre tutto, intorno, muta inesorabilmente, i legami, i desideri e i progetti. Come la natura stessa, che osserva dal proprio giardino e che diventa poesia. La connessione uomo-natura, un’altra delle chiavi di lettura con cui interpretare questo testo, imprescindibile da qualsiasi tentativo di narrare Emily Dickinson.
Accanto al ritratto della poetessa, appaiono qui e là si diceva micro racconti di Fortier, storie personali che aprono a ulteriori spunti e si legano perfettamente alla narrazione principale, creando una stratificazione originale: le riflessioni su casa e oggetti, sul tempo che passa e i mutamenti che comporta, sull’identità dei luoghi e sulla memoria di noi stessi che conservano; e, ancora, sono considerazioni sulla ricerca letteraria, sull’approccio alla materia, sul confronto con le fonti, i testi, gli oggetti, sul desiderio di preservare la propria immaginazione letteraria e al contempo l’esigenza di un rigore accademico con cui mediare.
Vorrei chiudere queste considerazioni con una piccola idea che mi hanno suggerito i numerosi spazi bianchi di questa narrazione: spazi metaforici nati dalla natura stessa del libro che non mira a essere esaustivo né a lanciarsi come si diceva in sterili speculazioni e che noi lettori siamo chiamati di volta in volta a colmare, recuperando le poesie di Dickinson e i saggi a lei dedicati (a partire, suggerirei, dalla bella biografia Come un fucile carico di Lyndall Gordon, edito da Fazi), lasciandoci andare a considerazioni ispirate dalle pagine; ma anche spazi concreti, quelle pagine bianche che separano brani e capitoli e che, ispirati appunto dal racconto di Dickinson creato da Fortier, potremmo provare a riempire di parole, immagini, foglie e fiori conservati tra le pagine. E osservare, con sensibilità e partecipazione, la natura, i sentimenti, le parole.
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