Immagina di baciare
Pete
di John O’Hara
traduzione di Vincenzo Mantovani
Racconti edizioni, 2020
€ 13,00 (cartaceo)
€ 5,99 (ebook)
Il proibizionismo, il tentativo dei fanatici di ridurre all’astinenza totale una nazione temperante, trasformò in bugiardi cento milioni di uomini e in imbroglioni i loro figli. (p. 32)
Il terzultimo giorno dello scorso anno, su queste pagine, scrissi della Ragazza nel portabagagli, il primo dei tre racconti lunghi di John O’Hara della serie Prediche e acqua minerale. Una serie, questa, dedicata in larga parte al proibizionismo: al modo in cui quei tredici anni hanno cambiato per sempre le abitudini degli americani, in qualche modo instillando nei cittadini – secondo l’autore – una certa attitudine alla menzogna e al sotterfugio, tutti elementi che in effetti ritroviamo nelle pagine di questo secondo racconto.
Se La ragazza nel portabagagli si concentrava prevalentemente sui ruggenti anni Venti e sulle melliflue promesse del cinema, Immagina di baciare Pete restringe appena il campo e tratta un tema forse un po’ più classico ma altrettanto capitale, vale a dire quello delle relazioni amorose. Se il primo racconto vedeva al centro la storia di Jim Malloy, alter ego letterario dell’autore John O’Hara, e il suo sogno di lavorare nel cinema, questa seconda storia ruota intorno a due personaggi, Bobbie Hammersmith e Pete McCrea. Il loro matrimonio, definito «la sorpresa dell’anno» (p. 13), viene raccontato attraverso tre decadi, ossia da quell’annus horribilis che è stato il 1929 fino a circa il 1960. Trent’anni di storia americana sono il set perfetto per narrare la storia non soltanto di due persone che da giovani rampolli, pieni di vizi e cresciuti nel boom economico che ha preceduto il collasso, diventano adulti con i piedi fin troppo per terra, bensì di quella che Malloy/O’Hara definisce non la generazione perduta bensì quella che ha perso.
Non sempre semplice è seguire le dinamiche interne del
gruppo di Jim Malloy: in poche pagine compaiono spesso molti nomi,
e per la natura stessa del racconto alcuni personaggi vengono solo abbozzati.
Ma anche quando il rischio di perdersi all’interno delle vicende diventa
concreto, ci pensa la capacità di O’Hara a rimettere le cose a posto. Da
lettori ci troviamo infatti a far parte della combriccola, quasi ospiti alla
festa, e mai ci sentiamo estranei anche quando perdiamo di vista qualche nome. Come fossimo veramente amici invisibili di
Malloy, quella che nella postfazione alla Ragazza nel portabagagli veniva additata come la capacità di O’Hara di
essere un abilissimo “origliatore di conversazioni altrui” si rivela ancora come una dote finissima. Se noi lettori ci sentiamo a nostro agio nel
leggere dialoghi e situazioni che descrivono una cultura vecchia di quasi cento
anni, è proprio perché a renderli vivaci e attuali è una persona che ha saputo ascoltare
il proprio tempo e tradurlo in parole. E così, l’irrequietezza della
gioventù americana degli anni Venti e Trenta, l’incertezza e le paure delle
donne e degli uomini degli anni Quaranta, il desiderio di stabilità degli anni
Cinquanta e Sessanta restano impressi a fuoco e sedimentano dentro di noi. Sono ancora oggi, un presente mai dimenticato.
Il Malloy entusiasta, sognatore e arrampicatore sociale della Ragazza nel portabagagli è cresciuto e ha rischiato di diventare un uomo cinico. Con lui, un’intera generazione ha corso il pericolo di sprofondare nella dissolutezza e nello spreco. C’è però una luce in fondo al tunnel, in quello che l’autore ci anticipa in più occasioni come «il nostro lieto fine» (p. 96). Folgorato dunque ancora una volta da John O’Hara – che, lo ricordo qui, ha pubblicato 247 racconti sul New Yorker – resto in attesa del terzo e ultimo volume della serie, consapevole che le mie aspettative non andranno deluse.
David Valentini