Mondadori, 2020
Traduzione di Annamaria Raffo
Titolo originale: The Evening and The Morning
pp. 783
€ 27,00 (cartaceo)
€ 16,99 (ebook)
Le nuove uscite di Ken Follett suscitano sempre una reazione emotiva ambivalente: da un lato il timore quasi reverenziale per il volume (per la semplice constatazione della sua presenza, quanto per il cospicuo numero di pagine), dall’altra quel senso di fascinazione che risale all’antico, alle letture di una certa giovinezza, a Tom il costruttore e ai pilastri della cattedrale gotica di Kingsbridge. Anche in questo romanzo c’è un costruttore, che all’inizio è semplice un costruttore di barche. Edgar è giovane, ma sorprendentemente intelligente, il tipo di persona che intuisce le forme nascoste nei materiali, che riesce a progettare con uno sguardo lungimirante alle fasi successive dei processi:
“il suo dono aveva a che fare con le forme, e anche con i numeri, con la capacità di intuire la relazione tra peso e carico, pressione e sforzo e quella torsione per la quale non esisteva parola. […] Il punto era che lui certe cose le vedeva. […] E quella immagine diventava realtà. Poteva fare ancora di più. […] Il suo dono doveva essere impiegato per imprese più grandi” (p. 384-385).
Le sue ambizioni rischiano però di essere stroncate sul nascere da un assalto alla cittadina costiera di Combe da parte dei vichinghi, che seminano morte e distruzione. Tutto parte da qui, da una scena di sangue che Ken Follett stesso dichiara di aver immaginato trovandosi ad Oslo, nel Museo delle Navi Vichinghe, nell’osservare dal basso verso l’alto le chiglie imponenti e minacciose, proiettandosi indietro nel tempo, su una spiaggia al sorgere del sole, e figurandosele nel loro scivolare silenzioso sull’acqua.
Accanto a Edgar, si muovono due grandi comprimari: il monaco Aldred, che porta avanti una sua personale lotta per la creazione di un importante scriptorium, ma anche per la difesa dei valori più forti del cristianesimo, contro la corruzione e la depravazione dilagante, incarnate entrambe dallo spietato vescovo Wynstan; infine la bella Ragna, nobile normanna, donna decisa e colta con una spiccata attitudine al comando, che si trasferisce in Inghilterra per amore, salvo poi scoprire che le dinamiche matrimoniali si fondano su ben altri presupposti e che le sue speranze devono scontrarsi con la chiusura, la rigidità e la grettezza di chi la circonda.
Fu sera e fu mattina prende il suo titolo da un versetto della Bibbia, riferito al primo giorno della creazione. Questo non è un caso, infatti il romanzo possiede molte anime e contiene diverse storie di nascite e rinascite. C’è un mondo nuovo che risorge dopo secoli bui. C’è il percorso di formazione di Edgar, che realizza a sue spese che il male non si trova sempre oltre i confini (incerti, permeabili) della solo apparentemente civilizzata Inghilterra (“L’Inghilterra era un posto pericoloso, si disse Edgar, con i vichinghi a est, i gallesi a ovest, e nel mezzo persone come Dreng” p. 240). Costretto a più riprese a cambiare i propri progetti, talvolta a fare i conti con la propria limitatezza, il giovane scopre cos’è la morale, impara ad essere uomo. C’è poi lo scontro, atavico, irriducibile, tra due modi radicalmente opposti, eppure coesistenti, di intendere la fede, il servizio (“‘Mio signor vescovo’ disse ‘state interrompendo i monaci nell’officio dell’ora Nona.’ ‘Io interrompo chi mi pare e piace’ sbraitò Wynstan. ‘Anche Dio?’ ribatté Aldred. Wynstan diventò tutto rosso per la rabbia”, p. 267).
E poi la dimensione sentimentale, restituita nella sua dimensione conflittuale, eterna (“Sembra che stiate parlando di una guerra, non di un matrimonio”, p. 304), mentre sullo sfondo si agita un’epoca storica che si colloca lontana nel tempo ma che rivela molte, inquietanti, affinità con il contemporaneo.
Follett riesce a trasmettere in forma divulgativa, senza che il lettore se ne avveda, un quadro preciso della realtà feudale dell’Inghilterra negli anni di passaggio tra l’Alto e il Basso Medioevo, con gli intrighi di potere che ne derivano:
Concessioni di territorio come quella erano la valuta usata quotidianamente dalla politica, in Normandia come in Inghilterra. Il sovrano donava terre ai grandi nobili, i quali a loro volta le dividevano tra governanti di rango inferiore – chiamati signori in Inghilterra, e cavalieri in Normandia –, creando così una rete di individui che restavano fedeli perché avevano acquisito ricchezza e potere e speravano di riceverne ancora. Ogni nobile doveva trovare il giusto equilibrio tra la terra che donava – necessaria a generare sostegno – e quella che teneva per sé, necessaria a garantirsi il predominio. (p. 279)
Nel muovere sulla scena i personaggi, nel farli interagire, nell’intessere relazioni tra di loro, Follett intuisce le possibili incongruenze, i dubbi del lettore, e li previene, rendendo conto delle differenze sociali, di convenzioni che paiono insuperabili (“‘Sei affezionato a lei.’ Gli occhi color nocciola di Edgar scintillarono [...] ‘Non nel modo che voi sembrate insinuare’ rispose Edgar. ‘Il che è una fortuna, visto che le figlie dei conti non sposano i figli dei costruttori di barche’”, p. 328).
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Una persona che aveva osato sfidarlo non avrebbe mai dovuto avere successo. La sua maledizione doveva essere fatale. Se Aldred riusciva a opporsi a lui, altri avrebbero potuto mettersi in testa di fare la stessa cosa. Aldred era una crepa nel muro che un giorno avrebbe potuto far crollare l’intero edificio. (p. 559)
Diviso in quattro ampie sezioni articolate intorno ai principali motivi conduttori (o, per meglio dire, agli eventi salienti), che si sviluppano nell’arco di dieci anni – tra il 997 e il 1007 –, il romanzo ha in realtà un protagonista celato, che fa capolino poco alla volta, a spiegare anche perché si possa parlare di quest’opera come di un prequel della grande trilogia inaugura con I pilastri della terra. Al centro della scena c’è infatti, ancora una volta, la città, King’s Bridge, colta nel suo divenire, nella sua evoluzione inizialmente quasi inavvertita. Durante l’incontro con i blogger, l’autore ha raccontato che il suo ritorno a Kingsbridge è stato naturale, quando si doveva raccontare della peste, così come quando l’obiettivo era rappresentare le guerre di religione.
“La città di Kingsbridge”, spiega Ken Follett, “ha iniziato a rappresentare l’Inghilterra. Tutto ciò che succedeva in Inghilterra succedeva a Kingsbridge. Kingsbridge è un luogo con cui ho confidenza, e con cui ha confidenza anche il lettore. C’è chi pone al centro della sua opera un personaggio ritornante, come James Bond, o Hercule Poirot. Io ho Kingsbridge”.
E della città quello che interessa non è la dimensione statica ma quella dinamica, il processo che conduce da un semplice villaggio a una struttura più articolata: “Questo passaggio mi piace per la dimensione di conflitto”, aggiunge, “il conflitto tra chi voleva il progresso e chi voleva che tutto restasse com’era, un conflitto molto familiare anche alla gente del ventunesimo secolo”. Ed è proprio in questa impressione di familiarità, nei luoghi ritrovati, nella complessità di personaggi che si collocano in un passato ben determinato e che pure potrebbero appartenere a qualsiasi epoca, nella costruzione di un edificio romanzesco a sua volta maestoso e imponente come una cattedrale, che il lettore si ritrova, ancora una volta, con lo stesso entusiasmo di sempre.
Carolina Pernigo
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