Mondadori, 2020
pp. 228
€ 17,10 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Leggendo Come un animale, secondo romanzo di Filippo Nicosia, uscito qualche mese fa per Mondadori (che arriva dopo Un’estate invincibile, edito da Giunti nel 2017), la mia mente ha subito intrapreso due traiettorie di analisi diverse, eppure parallele. La prima induceva a concentrarsi sul testo e sulla trama, sforzandosi di ignorare l’ombra ingombrante della mano che li ha partoriti; la seconda invece, spingeva a setacciare il libro proprio con l’intenzione di stanare il suo autore ad ogni passo.
Se volessi cominciare da un resoconto della prima, bisognerebbe dire che Come un animale è un romanzo molto compatto, fatto di capitoletti minimi ed essenziali e scritto in uno stile secco e scattante – non di rado ispiratissimo. Narra le vicende di Andrea, un professore di mezza età che ha mollato tutto per trasferirsi, nella campagna romana. Ha portato con sé pochissimi averi e un chiodo pesante nel cuore. Passa le sue giornate nell’apatia e nella solitudine, in uno stato di asfissiante attesa che è già divenuto rassegnazione, in un susseguirsi monotono di progetti frustrati e gesti assolutamente vani: mangiando cibo precotto, fingendo di curare l’orto, rileggendo romanzi e catturando insetti, osservando il ranch dei vicini, ubriacandosi in auto e lottando strenuamente per scacciare i ricordi e i pensieri. Il tutto nello sforzo di non pensare mai a quel punto – adesso vicinissimo – della mappa, in cui la sua vita era improvvisamente implosa.
Improvvisamente però alcune persone approdano nell’isola deserta di questo naufrago intenzionale: la bella vicina Silvy prima e Yuri poi, il giovane figlio di un piccolo boss locale. Sarà il rapporto conflittuale e affezionato instauratosi con uno dei due che romperà l’equilibrio instabile di Andrea, il suo malcerto incespicare tra vivere e sopravvivere, per spingere la catena degli eventi lungo una serie di inaspettate peripezie e verso una piega quasi noir – di cui naturalmente non sveleremo i risvolti.
Fin qui, non ci sarebbe nulla di eclatante, nessuna spericolatezza o fuoco d’artificio narrativo. Il testo guizza rapido e leggero, insinuandosi tra riflessioni esistenzialistiche e alte considerazioni filosofiche, senza mai affaticare o appesantire il lettore. E qui il merito è del sapiente controllo esercitato dall’autore, del suo passo sempre calibrato e scattante. Di quello stesso autore che ha cercato di scomparire dietro la storia dei suoi personaggi, ma che ha lasciato tante – troppe – briciole.
Filippo Nicosia, lo ricordiamo bene, oltre che essere romanziere e professionista nel mondo dell’editoria, è anche stato – per un periodo della sua vita – il librario mezzo pazzo che percorreva l’Italia su un furgoncino scassato chiamato Leggiu, per contagiare chiunque stesse a sentirlo con il suo amore sconfinato per i libri (il resoconto di una parte di quel viaggio è contenuto nel libro Pianissimo, libri sulla strada. Viaggio a 20 km l’ora per amore della lettura, pubblicato nel 2014 da Terre di Mezzo). E qui si apre la nostra seconda traiettoria d’analisi. Perché Come un animale, oltre che essere il resoconto di un percorso spirituale, di un incontrarsi di anime smarrite – di padri in cerca di figli perduti, di mogli in cerca dell’uomo giusto, di ragazzi in cerca di padri mai avuti, – è anche un racconto sul raccontare e sul leggere: uno specchio in cui la vita e la letteratura si ritrovano inesorabilmente l’una di fronte all’altra e si sfidano e si danno scacco a vicenda.
La parabola del nostro protagonista, in questo senso, è una parabola contorta e metaforica: quella di un uomo che ha vissuto attraverso le parole, che ha esperito le cose per interposta persona, che la vita la “legge ma forse non sa capirla”; che quando la sua esistenza stessa gli deflagra tra le mani non riesce a far altro che rifugiarsi in cantuccio, fatto di solitudine e parole. Parole che provano ad afferrare le cose, a dirle, e nominandole a dar loro forma e corpo
[…] il ragno dentro il suo liquido era più grande, ogni sua parte ben evidenziata: occelli, cheliceri, prosoma e opistosoma, pedipalpi. Termini senza senso che avevo appreso da poco, parole che corrispondevano ognuna a una sola cosa nell’universo.
Parole precise e inesorabili, chiuse. Ma le parole sono anche in grado di innescare il percorso a ritroso: anche grazie ai libri e alla letteratura – attraverso McCharty (a cui anche lo stile palesemente si ispira), Silone, Pavese – Andrea riuscirà a ricucire un legame con se stesso e con gli altri, a entrare in contatto con le altre persone, a riappacificarsi con il mondo.
In questo cortocircuito dunque, realtà e finzione, vita e letteratura, si rincorrono senza mai toccarsi, in una gara in cui nessuna delle due può avere la meglio. Perché in fondo si tratta della stessa cosa, di due tattiche diverse con cui partecipare alla stessa folle giostra. Ed è così che l’orco cattivo del romanzo viene prima ucciso attraverso la scrittura e solo poi attraverso l’azione. Perché l’azione può legittimare la letteratura. E solo la letteratura può generare azione vera e pura.
In questo modo sottile, Filippo Nicosia ha trasformato un buon romanzo e una storia tutto sommato semplici, in un raffinato gioco di specchi che, senza peripezie metanarrative, ci smaschera come lettori e ci spinge a guardarci un po’ dall’alto, per riflettere sul senso di quella cosa un po’ strana e tanto interessante che stiamo facendo (leggere). E smascherando noi l’autore, forse con un occhiolino un po’ smaliziato, finisce per rivelare anche un pezzettino di se stesso.
Emiliano Zappalà
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