di Célia Houdart
Edizioni Clichy, settembre 2020
€ 17,00 (cartaceo)
Se si potesse fare un ritratto della penna della Houdart – se esistesse un modo, intendo, per tradurre il suo narrare in un personaggio con una storia – quello prenderebbe le sembianze di Gil, il protagonista di La voce di Orfeo. Si dovrebbero scartare le tecniche miste o sporche: via il carboncino, via le matite morbide. E optare per un tratto fine, preciso, una matita dura o un pennarello a punta fine. Studiare i bianchi, fare attenzione ai contorni.
I bianchi (o i silenzi)
Gil è un ragazzo di diciotto anni, ha appena dato la maturità e nella sua estate libera si reca una volta a settimana nel salotto di Marguerite Meyer per studiare pianoforte, vuole entrare al Conservatorio di Parigi. La sua voce è un soffio, nessuno la coglie mai al primo colpo: non il padre Jorge, che ora lo rimbrotta, ora se ne preoccupa; non l’amico Olivier, che in fondo in parte condivide l’idiosincrasia per le parole.
La prima profonda corrispondenza tra atmosfera della storia e stile dell’autrice la troviamo proprio qui: nell’amore per il silenzio. Le scene traboccano di silenzi, talvolta distesi, talaltra pregni («[Gil e suo padre possono] sentire volare le mosche»), e somigliano sia alle frasi della Houdart, che sono ora ariose e paratattiche, ora dure e telegrafiche, sia alle immagini che la stessa evoca per aiutarsi nella narrazione. Grazie a questa corrispondenza riusciamo a percepire Gil tendersi internamente verso la musica quando, seduto sul sedile del treno di ritorno a Thoméry, suo paese natale, ripensa agli spartiti («Una tensione che [parte] da un punto tra le scapole e gli [attraversa] le braccia, i polsi, le dita, le ossa del cranio. Si [mette] a premere i tasti di un pianoforte immaginario»); grazie a questa corrispondenza lo vediamo risolvere, nella clinica psichiatrica dove è ricoverata la madre, una situazione critica con un gesto di breve e toccante poesia («Gil aprì la mano destra davanti al mento come una piccola pista di lancio. [Le] soffiò un bacio e andò via»); grazie a questa corrispondenza, infine, possiamo entrare in una lezione di canto e concentrarci non sul canto ma sul suo effetto («Gil [vede] la pancia [di una] ragazza gonfiarsi e formare una sorta d’isola ondeggiante al di sopra del pube. Le braccia [sono] madide di sudore e gli angoli di un fazzoletto [vengono] fuori dalla mano chiusa a pugno»).
Quello della Houdart e di questa storia è un amore per il silenzio che, nel ritratto immaginario di cui sopra, potrebbe essere rappresentato dai bianchi, nella maniera in cui i bianchi significano molto e allo stesso tempo lasciano spazio ad altro.
I contorni (o i suoni)
Nella vita di Gil, comunque, non è che ci siano solo silenzi. Anzi: sono presenti molti rumori. Nella maggior parte dei casi sono rumori riconducibili alla musica, e allora diventano suoni. Come quello del treno ad alta velocità che passa ogni sera alla stessa ora e su cui il ragazzo incastra il ritmo delle composizioni al pianoforte. O come il gracchiare del 33 giri di musica portoghese sotto la puntina del giradischi di casa. L’unica stonatura, la madre Lucile, è innocua: la donna infatti è ricoverata in una clinica psichiatrica fuori dai confini francesi.
Se nel ritratto di cui sopra i silenzi costituiscono i bianchi, i suoni potrebbero essere invece raffigurati dai contorni, perché come i contorni danno forma alla trama. L’autrice infatti non li usa soltanto come strumento per colorare il contesto (il treno, il 33 giri), ma anche per incrementare la tensione (lo scricchiolio degli alberi del parco), per allarmarci (il grido di una civetta) e per renderci evidenti alcuni snodi narrativi («Il verso di un merlo, acutissimo, intonato per diversi secondi, [aveva ormai squarciato] una sorta di velo che fino ad allora [aveva attenuato] tutto. Le cose [avevano riacquistato] all’improvviso la loro nitidezza, i suoni tutta l’ampiezza del loro spettro»). Insomma, la Houdart è abile con i suoni, perché li rende parte integrante della narrazione. Peraltro la sua lingua, che predilige assonanze e ripetizioni, si presta bene a una tale musicalità, e contribuisce senza dubbio alla coesione dell’opera – qui, c’è da dirlo, il traduttore Paolo Bellomo ha fatto un ottimo lavoro.
Il suono per eccellenza del romanzo, però, è il canto. A Gil esce letteralmente di dosso un giorno in cui, in macchina insieme a Olivier sulla strada per la Provenza, sintonizza la radio su una canzone degli Smithsonians: gli esce come fosse natura, davanti all’amico incredulo di avvertire sicurezza in una voce che senza accompagnamento è esitante. Impossibile comprendere subito il vero significato dell’episodio – per farlo bisogna passare attraverso altri momenti intensi – ma tanto i due personaggi quanto noi che leggiamo sappiamo che da qui in avanti Gil non potrà più fare a meno di cantare. Perché il canto gli brucia dentro come una vocazione, che lo porterà a rivedere tutti i suoi piani di vita.
«Come in un disegno più preciso, dal tratto più sicuro e meno teso», il talento di Gil cresce a dismisura, e lo fa al passo con quello della Houdart. Infatti, così come vediamo il ragazzo diventare tenore e prendere parte alle prime produzioni nel ruolo di corista e poi di cantante protagonista, allo stesso modo vediamo l’autrice aprirsi a ulteriori accorgimenti di sonorità, dando vita a pagine di una viscerale risonanza di forma e di contenuto. Come nel brano in cui il protagonista scopre che il corsetto lo aiuta a controllare la respirazione, in cui la sintassi paratattica riproduce proprio il ritmo dell’atto respiratorio: «Percepiva la spinta del diaframma sulle viscere, l’appoggio e il sostegno. Non aveva mai provato quelle sensazioni in maniera così nitida. Affrontava meglio alcuni passaggi difficili per il fiato. Si sentiva al contempo più libero e più preciso».
L’autrice, di questa risonanza, pure se ne rende conto – o forse ne è sempre stata consapevole. A un tratto afferma, attraverso il narratore, e parlando di Gil: «Era una forma di vertigine pensare che la sua voce appartenesse, a pochi giorni di distanza, a tutti quei personaggi, che passasse così da un mondo all’altro».
Anche girando l’affermazione su di lei, dev’esserlo davvero.
Giulia Laino