Nutrimenti, 2020
Traduzione di Elisa Copetti
pp. 238
€ 17,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Sono anni che Sara è lontana dalla Bosnia. Si è creata una nuova vita, si è ripulita dalla sua vecchia lingua e dalle memorie del passato. Ha cercato di non pensare più a lei – lei, che si fa ora protagonista di una storia nuova e vecchia al tempo stesso; lei che spesso diventa un tu a cui la narratrice si rivolge direttamente. Lei che un giorno chiama, come se nulla fosse, come se non fossero trascorsi dodici anni di silenzio, come se la rottura tra loro non fosse stata terribile, e invita Sara a mollare tutto e a partire, per raggiungerla a Mostar e imbarcarsi in un lungo viaggio on the road verso Vienna, dove si trova, forse, suo fratello Armin, scomparso molti anni prima. Lei, Lejla, che anche dopo anni, sotto la tintura dei capelli e i vestiti volgari, è sempre la stessa, la ragazzina inquieta e distruttiva, volitiva e capricciosa, che sbrana l’esistenza prima di esserne divorata a sua volta:
La vita per Lejla era una volpe rabbiosa che viene di notte a rubarti il pollame. Scrivere della vita secondo lei significava fissare una gallina fatta a pezzi il giorno dopo, senza la possibilità di acciuffare la bestia all’opera. (p. 19)
È Lejla che, come sempre, tiene le redini di un’amicizia impari, che detta le regole, che è sempre un po’ più avanti – pur essendo, di pochi mesi, la più giovane. È lei quella cinica, che ha sempre sminuito i suoi successi, e al cui richiamo pure Sara corre, senza esitazioni, senza un pensiero per Michael, per la loro storia consolidata, per l’appartamento a Dublino, per una esile piantina di avocado, di cui non riesce a emulare l’ostinato attaccamento alla vita. È come se tutti gli anni trascorsi, tutti i mattoni posati sull’altare della reinvenzione di sé, siano stati sospesi in una lunga attesa della telefonata di Lejla, e adesso Sara va, per chiarire i conti in sospeso, per trovare una conclusione a una storia non risolta – forse per poter essere finalmente libera. La narrazione si muove tra un passato comune da ricostruire nelle sue fratture e il presente di un ritrovamento burrascoso, ostacolato dalla diversità che il tempo ha accumulato su di loro.
Armin allora è solo uno dei motivi del viaggio, anche se in modo diverso entrambe l’hanno amato, entrambe sono rimaste congelate di fronte alla sua sparizione, in quel tempo della guerra, quel tempo che non si può restituire davvero se non attraverso lampi isolati (la sparizione dei cani, gli insulti sul quaderno di Lejla, i nomi cambiati per dissimulare un’identità scomoda...). Lejla e Sara, solo loro, non hanno mai smesso di credere nella sua sopravvivenza, di sperare nel suo ritorno, e questo ha contribuito a tenerle unite, almeno per un po’:
Noi sapevamo che Armin era vivo. La consapevolezza ci teneva legate molto più dello stesso banco. Ora era obbligatorio restare insieme fino alla fine, finché tuo fratello non fosse ricomparso. Se avessimo litigato, se ci fossimo separate, con noi si sarebbe infranta anche quella fragile consapevolezza. Come se la sua vita fosse intessuta nella materia della nostra amicizia. Non esisteva altrove se non lì. (p. 79)
Armin, del resto, non è stato solo il fratello della sua migliore amica. È attraverso le sue domande curiose che una Sara bambina si è scoperta come persona:
E dopo chissà quante domande, sulla macchina preferita, la canzone, la casa, il gioco, il cartone animato, la colazione, e dopo tutte le mie risposte, inventate, false, bisbigliate, sento finalmente di esistere. Sono una persona. [...] Tutte quelle risposte mi riempiono come una casa vuota su un libro da colorare. (p. 97)
Invece nell’amicizia troppo stretta con Lejla, nel sentimento di interdipendenza che si crea, sembra che Sara a tratti finisca per perdersi, per dimenticare ciò che è veramente suo. Solo durante il viaggio, nel lento scavo che la porta a ripercorrere le stagioni di un rapporto che attraversa il tempo come una trama sottile, quasi inavvertita, è Lejla a dare senso a tutto. È guardandosi attraverso i suoi occhi che Sara impara a leggere il mondo, a comprendere il senso della morale. Per questo la nascita della loro affinità elettiva, in occasione del primo giorno di scuola, diventa un nuovo segnatempo: “Nessuno ci pensa quando cominciano le storie. Non puoi sapere che è il primo capitolo. In quell’attimo sta tutto il tempo e tutta la storia, non esiste nulla prima né dopo” (p. 116).
Con una prosa incredibilmente forte, intensa, una prosa impastata dei colori, degli odori dei Balcani, Lana Bastašić ci racconta un viaggio bidirezionale. Un viaggio all’indietro, verso le bambine e le adolescenti che Sara e Lejla sono state, e un viaggio all’interno, che è anche metafora, discesa negli abissi della propria identità composita, oltre che nell’oscurità di una terra aspra e ferita:
L’interno. Questa parola mi ha sempre fatto pensare al corpo umano. Pensai a noi due in quell’auto come a un globulo bianco in viaggio verso l’interno, l’oscurità profonda, l’incertezza della vita che la muove. Ero completamente smarrita, nella macchina ferma in mezzo alla strada, nel buio impenetrabile, in un paese che somigliava al mio tanto quanto una maschera mortuaria somiglia al volto di un uomo vivo. [...] Non era stato sufficiente resuscitare la lingua, dovevo trovare dentro di me qualcosa di più profondo della semplice cognizione, qualcosa di carnale, primitivo, l’istinto che ti permette di sopravvivere nell’oscurità. Un tempo l’avevo, rimasto dai giorni in cui ero bambina e vagavo per la nostra città alla ricerca di Armin. Avevo la pelle per la Bosnia. Ora dovevo farmene una di nuovo, farla uscire e ispessire in pochi secondi sopra i miei ingenui pori europei. (p. 88)
Ogni tappa porta con sé un trauma, una scoperta; inizia a riemergere un pezzo celato della storia, un avvenimento rinnegato che, a un certo punto, sembra aver spezzato il noi che erano Sara e Lejla, il noi che ora sembra (sul serio? Illusoriamente?) di poter ricostituire. Il viaggio pare anche l’occasione per prendere congedo dalla propria terra, dal proprio passato. Eppure c’è qualcosa, nella Bosnia, di cui non ci si può liberare. Una volta toccata l’oscurità, questa ti entra dentro, germina come una formazione cancerosa, crea una barriera invisibile, uno strato di pastosa e insopprimibile malinconia che separa chi l’ha provata da chiunque altro, impossibilitato a capire.
A volte soltanto dai bordi del mio essere [gli uomini] avrebbero annusato una tristezza illogica, un’oscurità che mi strappa le penne dalla superficie della pelle, e che non sapranno come interpretare, nonostante tutti i volenterosi tentativi, arrabbiati perché non sono quello giusto che mi aggiusterà. (p. 187)
È questo il frutto di una guerra fratricida, con il suo lascito terribile, incarnato nell’impossibilità, o nell’assenza del desiderio di generazione delle protagoniste. Le consola, più o meno consapevolmente, l’idea che tutto si esaurisca in loro, che dopo di loro non ci sarà nulla – che il loro baco non si possa tramandare, e che il fulcro della loro esistenza, il significato più riposto, sia proprio in quel fragile noi (“due donne che hanno solcato la Bosnia e che sono fuggite dal luogo del delitto, e che un giorno semplicemente smetteranno di essere. […] Non daremo al mondo nessun artista, nessuna puttana né scrittrice, nessun eroe né criminale. […] Nessuno sarà mai noi. Lo siamo solo noi due”, p. 188). Sconvolgente è il libro, sconvolgente la fine, che svela solo in coda il senso di quel coniglio bianco, inseguito e afferrato da un’Alice che ha perso ogni innocenza – e che rivelerà, con un guizzo finale, il valore della memoria, della storia condivisa, di un tempo ciclico che sempre si rinnova, mentre le vite dei singoli inevitabilmente si perdono.
Carolina Pernigo
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